Capitolo 2

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Mi perdevo guardandolo.
Ero affascinata da quelle mani che, impugnando un ago ronzante, riuscivano a dipingere un'opera meravigliosa su un corpo, su una pelle. Non era un foglio bianco, bensì una superficie piena zeppa di lacerazioni e cicatrici in rilievo; lui doveva aver a che fare con un corpo non facile, eppure era lì, concentrato e immerso totalmente in quello che faceva. Ogni tanto interrompevo il lavoro per respirare un attimo e mettere da parte quel dolore fisico che alla fine era irrilevante dopo tutto ciò che avevo passato.
Poi quelle mani dalle nocche tatuate ritornavano a disegnarmi con delicatezza, dedizione.
Rimanemmo in silenzio, ma era rumore. Ognuno di noi aveva pensieri troppo ingombranti per parlare.
«Abbiamo finito.» disse d'un tratto e mi resi conto che mi ero abituata a quel lieve ronzio, a quel tocco pungente ripetuto.
Mi misi seduta e d'istinto alzai lo sguardo verso lo specchio verticale appoggiato al muro, notato mentre me ne stavo sdraiata. Abbassai gli occhi su quel tatuaggio; la pelle era arrossata ma si distingueva benissimo: spiccava sulla mia pelle chiara.
Schiusi le labbra, incantata e impaurita al tempo stesso da quel riflesso. Eccola la verità, eccomi.
Inclinai il capo verso destra per osservarlo e studiarlo da un'altra prospettiva. Mi venne la pelle d'oca, un brivido mi percosse la colonna vertebrale. Qualcosa di viscerale mi scosse da dentro, come se stessi guardando l'incidente da fuori, come se mi vedessi ancora lì nell'acqua a gridare in risposta a quel dolore straziante. Tutto mi passò veloce in testa, fu un attimo di debolezza che fece crollare tutto.
Mi si inumidirono gli occhi, ma cacciai indietro le lacrime prima che potessero uscire libere e irrefrenabili.
Eccolo lì il mostro che mi aveva piegata in due, stravolgendomi quella vita che amavo tanto, rincorrendo l'attimo senza paura, senza freni.
Però poi tutto può cambiare in un istante.
Mi accorsi di star respirando pesantemente; sentivo solo il mio respiro, tutto attorno a me era in silenzio, c'era quiete. Le orecchie cominciarono a fischiare; fuori ero immobile, dentro mi dimenavo come in un incubo per scappare a quella vista, a quell'animale che l'istinto l'aveva reso un carnefice.
Mi riscossi dalle grida terrificanti che mi rimbombavano ancora in testa e vidi quel ragazzo fissarmi come se cercasse di capirmi. Mi guardò con un'intensità che mi fece vacillare piano. Appena m'accorsi di lui, cercò di fuggire dandomi le spalle.
Scappò via, senza darmi il tempo. Non avevo nemmeno potuto guardare con attenzione quei cromatismi eccezionali che custodiva nelle iridi. Era così sfuggente che pensai lo facesse perché gli dava fastidio che lo guardassi dritto negli occhi.
«Spero che ti piaccia...» mormorò di schiena, mentre riordinava il banco da lavoro.
Avrei voluto dirgli che era bello, ma di una bellezza unica e spaventosa. Quello che avevo deciso di tatuarmi m'impauriva, ma un'angolo ancora timido e remoto di me stessa lo apprezzava davvero. Avrei voluto dirglielo guardandolo, mostrandogli quella gioia nascosta che illuminavano i miei occhi. Erano umidi; ero sul punto di piangere scossa da emozioni troppo contrastanti.
«Sì... è così... reale.» sussurrai, mentre toccai leggermente la pelle calda. Ritrassi la mano.
Dopo avermi fasciata la gamba con la pellicola, si allontanò un po' per permettermi di indossare il tutore. Mi alzai in piedi e mi sentii meno fragile, più normale.
«Aspetta qualche ora e poi togli la benda per lavare la pelle con acqua tiepida e un sapone antibatterico... per eliminare i residui di sangue, disinfettando la zona. Appena la pelle sarà pulita e asciutta applica pure questa crema che è proprio per i tatuaggi.» parlò mentre armeggiava con dei fogli e poi prese la scatola contenente la pomata. Volevo poterlo guardare un'ultima volta perché non avevo mai visto degli occhi speciali come i suoi.
«D'accordo, grazie.» sospirai, per poi seguirlo nel corridoio, arrivando all'ingresso.
Carl stava leggendo delle cose al computer e, appena arrivai, si voltò sorridente.
«Allora, ragazzi? Per essere la prima volta, come ti è sembrato, Camille?» mi chiese, veramente interessato a sapere come avevo vissuto l'esperienza. Una gentilezza di questo genere mi era capitato di vederla poche volte nelle persone.
«Direi... bene.» sorrisi visibilmente soddisfatta. Lanciai uno sguardo verso quel ragazzo e notai quanto fosse immerso nei propri pensieri per far caso alla nostra chiacchierata.
«Oh, sono contento! Guarda, mi scuso ancora per non essere stato disponibile ma»
«Non ti preoccupare, sono contenta in ogni caso.»
Avrei voluto aggiungere che era tutto merito suo: lui aveva aggiustato il disegno rendendolo realistico, maestoso e al contempo spaventoso. Avrei voluto ringraziarlo davanti a Carl, ma avevo la sensazione che lo potesse infastidire e lasciai perdere, sperando di avere un'altra occasione per dirgli quanto fossi davvero soddisfatta.
«Joshua è un vero artista, sono felice di averlo nel mio negozio!» gli diede una pacca sulla spalla e si scambiarono uno sguardo di fiducia e comprensione, come se avessero trovato qualcosa di mancato uno nei confronti dell'altro.
L'opinione di Carl era così sincera ma, quel ragazzo che aveva saputo disegnare la mia storia senza pregiudizi, sembrava non dare importanza alle parole dell'uomo, come se non credesse di avere quella particolarità.
«Ti lascio i documenti e la crema... ciao Camille...» fece un cenno veloce nella mia direzione per poi ritornare nel suo studio trascinandosi dietro di sé gli anfibi, le spalle un po' ricurve forse per le ore di lavoro.
«È di poche parole, sai, si è trasferito in questo studio da poco.» mi disse, sempre con quel sorriso di chi ama fare il proprio lavoro.
«Certo, immagino.» risposi soprappensiero.
Dopo aver pagato, presi la mia giacca e mi diressi verso l'uscita. Ormai camminavo piuttosto bene con l'altra gamba, quasi sembrava non avessi quel problema. Erano stati anni duri per me, certo; c'erano stati momenti in cui l'unica soluzione possibile per me era sparire perché niente aveva senso... altri in cui m'impegnavo a camminare il meglio possibile, anche ore continue nonostante non dovessi sforzarlo più di tanto, al tempo.
«Ah, Carl, ringrazialo ancora da parte mia... ha realizzato proprio quello che avevo in testa, e alla perfezione.» dissi solamente, deglutendo anche un groppo che avevo in gola.
Non avevo avuto modo o tempo di riferirglielo, perciò ne approfittai per farglielo sapere comunque.
«Sicuramente!» alzò il pollice per aver ricevuto il messaggio e ridacchiai per una sciocchezza così, come non mi succedeva da un po'.
Uscii e camminai sotto quel tetto di nuvole grigie pronte a lacrimare e far cadere la pioggia lì a Pembroke. Ogni tanto abbassai la testa sorridendo dentro di me per la soddisfazione: l'avevo affrontato, una volta per tutte. Non avevo di sicuro vinto, ma ci stavo provando con ogni forza che mi era rimasta.
Ritornai sulla strada di casa, ma mi fermai al panificio come d'abitudine. Un profumino di dolci e di pagnotte appena sfornate mi lasciavano sempre un senso di strana felicità addosso. Avevano un non so che di familiare, mi rimandavano ai tempi in cui mi recavo da mia nonna; lei preparava il pane con la farina integrale e, con il burro e la marmellata di lamponi, realizzava una prelibata merenda. Era un'infanzia così ordinaria ma bella, un periodo di gioia, di semplicità, nel quale l'unico obbiettivo sembrava vivere giorno per giorno alla ricerca di un nuovo amico, di un nuovo sorriso. E sembravano sempre così troppo lontani quei ricordi...
Comprai del pane e una fetta di torta di carote per il signor Reynolds.
Quando entrai nel piccolo condominio, presi le lettere di quel lunedì senza neanche guardarle. Avevo fretta di arrivare e suonare al mio vicino, prima che cominciasse a prepararsi la cena accendendo la televisione al massimo. Non sentiva mai il campanello, e sarebbe finita come lo scorso lunedì che alla fine la torta l'avevo mangiata io di fronte ad un programma noioso e deprimente.
«Oh Camille!» esclamò con l'entusiasmo che si rifletteva negli occhi stanchi.
«Ecco a te il tuo dolce...» glielo porsi e se lo portò al petto come un bambino che riceveva indietro il suo gioco perduto.
«Sei sempre gentile, Camille.»
Le rughe sul suo viso si accentuarono ma vidi in quell'uomo un vissuto da invidiare. Era stato un pianista, delle sere mi ritrovavo sul letto ad ascoltare le note che passavano oltre i muri sottili. Nonostante gli tremassero le mani e gli facessero male, continuava a suonare mosso da un'amore incondizionato e radicato da tanto di quel tempo che nemmeno lui ricordava la prima volta che toccò uno di quei tasti bianchi e neri. Nel silenzio della palazzina il suo pianoforte riscaldava le serate tristi. Capitava che mi commuovessi ad ascoltare quelle melodie; immaginavo quell'anziano piegato sul piano con la schiena incurvata e le dita asciutte e intorpidite dalla vecchiaia. Lo figuravo seduto davanti a quello strumento in preda ad una forte malinconia della gioventù, degli anni passati, di quell'amore senza tempo e senza età.
Era da anni vedovo: mi spiegò che suonava per la moglie. L'aveva conosciuta a teatro dopo una sua esibizione e da lì la storia era stata scritta. Mi disse che viveva nella memoria di lei grazie alla musica che li aveva fatti incontrare per quel caso che si usa chiamare destino.
Appena entrata nel mio appartamento, ancor prima di lasciare le lettere sul tavolo, ne scorsi una in particolare. Vidi quel francobollo e quel nome. Veniva da lontano, da quel posto nel quale non avrei più fatto ritorno.
Erano i miei genitori che provavano a dissuadermi dall'idea di restarmene in Inghilterra, ma forse alla fin fine era l'unico luogo che mi facesse sentire al sicuro.
La lasciai in cucina, aperta per metà, senza la voglia di leggere delle parole di chi non aveva compreso a pieno il dolore che avevo provato e che continuavo a tenermi dentro. Si erano fidati dei falsi sorrisi, delle stupide frasi di circostanza credendo che tutto fosse tornato come prima; no, era cambiato tutto.
Pareva che nessuno fosse in grado di capire.
Presto il cielo si oscurò e cominciò a piovere, l'umidità si sentiva pure nel mio piccolo appartamento.
Mi rifugiai sotto la coperta di pile e accesi la televisione con la speranza di potermi trasportare nella vita di qualcuno su quello schermo piatto, senza pensare alla mia.
Dopo un po' sentii una dolce melodia provenire da lontano e impostai il muto per evitare che i suoni rovinassero quel brano delicato.
In quella palazzina abitavamo solo io, il signor Reynolds e una donna piuttosto scorbutica che era la proprietaria di una vecchia boutique di tè lì nella cittadina. Perciò quella musica sembrava essere condivisa soltanto con me, visto che la signora del piano terra preferiva passare il tempo nel suo negozietto e andare a dormire presto.
Socchiusi le palpebre e lasciai che il mio cuore si facesse trascinare via da quella musica piena di tante cose belle. Feci un profondo sospiro e mi addormentai.
Una lacrima mi rigò il viso, si fece strada lungo la guancia e sparì tra le labbra. Era calda e sola, si adagiò nel silenzio di quelle quattro mura mentre un uomo suonava per rivivere il suo amore perduto.



Ciao🧡
Come va?
Ecco il nuovo capitolo, avevo bisogno di finir di raccontare questo grande piccolo passo per Camille. Ora potete sapere qualcosina di più su di lei!
Spero che la storia vi stia piacendo e che sia quindi piacevole alla lettura. Se avete consigli, idee, opinioni... condividetele con me! Mi fanno sempre molto molto piacere!
(Sto ancora pensando se creare dei veri e propri prestavolto per la storia o lasciare libera immaginazione...)
Il capitolo parla già da solo e perciò ora vado ahaha.
Grazie, a presto!

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