2. C'è di peggio

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Il buio che mi circondava era così denso e pesante da togliermi il fiato, provocandomi un' insopportabile pressione al petto. Cercai immediatamente di alleviarlo poggiando una mano su di esso e premendo, senza però alcun risultato.

Tentai di riconoscere il luogo dove mi trovavo. Era tutto dannatamente oscuro e risultò solo un buco nell'acqua.

Non ricordavo il posto, non c'ero mai stata, tuttavia un'assurda convinzione mi suggeriva che fossi lì per un motivo, mi trovavo in quell'oscurità perché dovevo esserci.

Tolsi la mano destra dal seno e con quella mi aiutai ad alzarmi.

Stringevo tra le dita della sinistra qualcosa che non riuscii a riconoscere, questo perché lo tenevo così saldamente da non percepirne nemmeno la forma; sentivo solo che faceva male. Non solo a me stessa, dato che il dolore che dalla mano si propagava attraverso le terminazioni nervose in tutto il corpo era insopportabile, ma anche a chiunque altro.

Era semplicemente sbagliato, non ci sarebbe dovuto essere.

Sapevo di doverlo lasciare perché era giusto così, sentivo di doverlo a me stessa e agli altri, ma le mie dita non ne volevano sapere di allentare la presa; piuttosto aumentavano la forza ogni volta che pensavo di doverlo mollare.

Dovevo, ma non volevo.

Secondo dopo secondo mi sentivo sempre peggio, mi sembrava quasi che il mio corpo si scarnificasse dove il dolore passava, a partire dalle mani fino alla punta dei piedi e alla cima della testa. Sapevo che per stare bene non l'avrei dovuto lasciare, per nulla al mondo.

Era parte di me, non avrei potuto vivere senza.

Il dolore che mi consumava rapidamente, qualcosa di irrazionale dentro di me me lo suggeriva, era il prezzo da pagare per essere felice.

Tutto ciò era assurdo, contraddittorio, ma a me stava bene.

Avevo avuto bisogno di un po' di tempo per accettarlo, alla fine non mi ci volle chissà cosa per farmi cambiare idea. Lo accolsi semplicemente con tutte le conseguenze che esso portava e quando ormai rimasi senza un goccio di energia sentii migliaia di lame perforarmi ogni millimetro del corpo.

Mi accasciai a terra priva di vita ma con ancora stretta tra le dita la fonte di tutto questo.

«Hai dormito bene questa notte, Karin?»

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«Hai dormito bene questa notte, Karin?»

Sollevai appena gli occhi dalla tazza piena di tè fumante e misi a fuoco il volto di mia madre, seduta di fronte a me sul tavolo e una semplice smorfia del mio viso le fece capire tutto ciò che c'era da dire.

«Non dirmi che sono ricominciati i tuoi brutti sogni». Sospirò lei esasperata, prendendo il cartone del latte e versandomene nella tazza del tè finché questo non arrivò al bordo.

«Incubi, si chiamano incubi, i brutti sogni non esistono» ribattei inacidita, pensando che non fossi più una bambina a cui veniva detto 'brutti sogni' perché non si spaventasse. «E poi lo sai che il latte alla mattina mi fa venire la nausea».

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