Capitolo 4

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Non sapeva spiegarsi razionalmente il perché, ma quella discussione col signor Wayne aveva lasciato un vago senso d'incomprensione ad aleggiare nella sua mente, e a Kate tutto ciò non piaceva affatto. Nemmeno la mezz'ora passata a bordo della sua auto, guidando tra il traffico cittadino era riuscita a calmarla. In famiglia tutti sapevano di come lei fosse la prima a risentire degli squilibri interni, ma arrivare addirittura a essere sconvolta per un misero incontro informale le sembrava un tantino esagerato. Aveva provato in tutti i modi a rilassarsi, sfoderando anche il suo segreto asso nella manica: ascoltare "Princes of the Universe" a tutto volume cercando di tenere il passo con gli acuti di Freddie Mercury, ma nulla aveva funzionato. Nella sua mente continuavano a riproporsi incessantemente le immagini del pomeriggio: quegli occhi verdi e glaciali continuavano a balenare nei suoi pensieri, accompagnati dall'espressione a metà tra l'annoiato e lo scontroso.

Immersa com'era tra i pensieri, a malapena si accorse di aver raggiunto il suo condominio quando, aspettando che si aprisse la porta che conduceva ai garage, un insistente bussare sul suo finestrino la fece sobbalzare. Voltandosi si trovò davanti la Signora Adeland, simpatica vecchina proprietaria dell'appartamento sopra al suo. Una persona adorabile, se non fosse stato per il suo non altrettanto adorabile pinscher nano il cui scopo primario nella vita sembrava essere quello di abbaiare il più forte possibile ogni qualvolta la vedesse. Difatti anche in quella occasione, come da manuale, il piccolo Tommy cominciò a sfoggiare la sua capacità polmonare, incurante dei vani tentativi della padrona di farlo tacere.

«Mi dispiace, cara» si scusò con un'espressione desolata la Signora Adeland. «Non capisco perché faccia così, di solito è un cucciolo così adorabile!»

«Non si preoccupi» la rassicurò Kate, mentre abbassava il finestrino. «Ormai sono abituata, e poi non mi da' fastidio. Le ricordo che ho una sorella, il livello di sopportazione è circa lo stesso» scherzò.

«Che cara ragazza che sei» ghignò lei, guardandola con lo stesso amorevole sguardo che rivolgeva ai suoi nipotini. «Ad ogni modo, volevo invitarti a cena a casa nostra una di queste sere, mia nipote si è da poco trasferita qui in città col suo fidanzato.»

«Grazie dell'invito, forse domani sera sono disponibile» rispose l'altra dopo un momento di esitazione. «Non pensavo avesse un'altra nipote» disse poi, dando voce ai suoi dubbi.

«Ha sempre lavorato a New York, ma il suo compagno è stato trasferito in un'altra scuola per insegnare e lei l'ha seguito» ridacchiò la donna mentre si opponeva a Tommy che continuava a tirare il guinzaglio, decisamente scontento per il contrattempo che si era frapposto tra lui e la sua passeggiata serale. «Sai com'è, per amore si fa di tutto!»

Kate rise e sentì finalmente quel senso di oppressione allentarsi.

«Purtroppo non ho ancora avuto modo di conoscerlo, ma dev'essere un bravo ragazzo, è un'amante dell'arte» riprese la donna, mantenendo la gioviale espressione che la contraddistingueva.

Con quell'allusione però, la Signora Adeland aveva inconsapevolmente riportato a galla quell'inquietudine che era riuscito con fatica ad accantonare, facendola riemergere con forza nella mente di Kate.

«Ho detto qualcosa di sbagliato, cara?» le domandò quindi preoccupata la donna, quando probabilmente si rese conto del suo turbamento.

«No, Signora, si figuri» cercò di rassicurarla Kate con scarsi risultati. «Grazie per l'invito a cena, cercherò di esserci. Ora, mi scusi, ma devo proprio scappare. Buona passeggiata!» si congedò, e mentre la donna si allontanava, rialzò il finestrino e imboccò la porta del suo garage, pregando perché quel costante brutto presentimento non fosse altro che una sciocca paranoia, e che quella assurda coincidenza , non corrispondesse alla verità.

Una volta scesa dalla macchina, si avviò in ascensore verso il suo appartamento, tastando le tasche alla ricerca delle chiavi. Aprì il portone di legno scuro, ed entrò nel salotto, togliendosi le scarpe e riponendole ordinatamente sotto il mobile all'entrata. Era un'abitudine che aveva fin da bambina, e che probabilmente non avrebbe perso mai. Anche se abitava da sola ormai da un paio di anni, se lasciava le cose in disordine percepiva uno strano formicolio alla nuca, lo stesso che avvertiva quando sua madre la sorprendeva a fare qualche marachella da bambina e restava a osservarla in silenzio, aspettando il momento migliore per rendere nota la sua presenza e sgridarla a dovere.

Entrò quindi in cucina, dove si diresse immediatamente verso il frigo e afferrò una bottiglietta d'acqua. Cominciò a sorseggiarla mentre con scarsa attenzione controllava i messaggi e le notifiche ricevute mentre stava guidando, ridendo per l'ennesima idiozia postata da Jaz su qualche social network. Una volta finito di leggere, si diresse verso la sua camera e si lanciò a peso morto sul letto, beandosi del profumo di bucato che emanava la leggera coperta bianca e nera. Ma di nuovo si ritrovò nuovamente a riesaminare i particolari del pomeriggio.

 Kate era sempre stata caratterizzata da un'empatia fuori dal comune, e aveva la notevole abilità di inquadrare subito le persone, riuscendo a intuirne l'indole e il carattere fin dal primo sguardo. Eppure quel professore aveva qualcosa che le sfuggiva. .

Non potendo smettere di arrovellarsi sul quel "dilemma di un metro e ottanta" che, a quel che pareva, non aveva la minima intenzione di abbandonare la sua mente, Kate sbatté nervosamente la testa contro il materasso. Si voltò stizzita verso la vetrata che occupava buona parte della parete, sperando di trovare un po' di pace in quel cielo terso di fine maggio, e si fermò a osservare come quella leggera brezza estiva smuoveva pigramente le chiome degli alberi che ombreggiavano uno dei tanti parchi del quartiere, e come i bambini, che si divertivano a rincorrersi sotto gli sguardi attenti delle madri, fossero incredibilmente silenziosi da quell'altezza.

Le sue riflessioni furono però interrotte da una vibrazione del cellulare. Un messaggio lampeggiava sullo schermo, informandola che anche un solo minuto di ritardo sarebbe stata severamente punito con il lasciarla a stomaco vuoto. Alla vista della minaccia, si rialzò di scatto e cominciò a rovistare nell'armadio. Si cambiò al volo, sostituendo la camicia a quadri per una maglietta a maniche corte e scese le scale. Appena messo piede fuori dal portone sentì la sua mente cominciare a liberarsi ad ogni passo, concentrandosi solo sull'aria che gli scompigliava i capelli e il battito cardiaco che, risuonando nelle orecchie, andava a fondersi con le note di "Politik". Non aveva bisogno di prestare attenzione al percorso; i suoi piedi avevano percorso quella strada talmente tante volte che avrebbe potuto percorrerla anche ad occhi chiusi. Si rilassò dunque, lasciandosi guidare solo dal suo istinto, fino a raggiungere una villetta grigia a due piani dal tetto scuro, con un'altalena appesa all'albero e un paio di macchine parcheggiate nel vialetto.


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