Capitolo 7

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Certi sguardi, certe espressioni, certi silenzi, 
ti riducono in polvere.
Ci vuole davvero poco a rovinare un essere umano per sempre.

                                                                                                                                                                      David Grossman

Dark

Ho sempre pensato che lei stonasse con questo mondo, con tutto quello che mi circondava, che i miei occhi riuscivano a scorgere davanti a sé, così diverso, così lontano da lei che sembrava fatta di una materia diversa. Ho sempre pensato che nelle sue vene non scorresse sangue, ma lacrime di stelle; che le sue ossa fossero fatte della stessa sostanza dei desideri, perché più cresceva, più si modellavano come il più crudo e bello dei mie sogni.

Quando hai fame, quando le budella si contorcono perché vuote, ti rimangono solo i pensieri da mangiare; quelli non può toglierteli nessuno, continuano a ruotare nella tua testa come un mulinello senza inizio, né fine.
E lei, è sempre stata al centro di quel vortice, stabile, come niente può essere dentro qualcosa che gira di continuo, che cambia direzione, che si trascina e abbandona tutto quello che trova. Ma lei c'era, era sempre lì, fin da quando la vidi per la prima volta, nuda dentro e fuori, e provai vergogna, un senso di impotenza che mi lacerò il petto lasciando il cuore scoperchiato, privo della coltre di ossa che mi era stata donata dal ventre di mia madre.

Lei mi aveva guardato, aveva appena sollevato gli occhi su di me, ma era bastato quell'attimo per annientarmi, marchiarmi per sempre con quegli squarci sulla faccia, perle di un mare lontano, trascinate qui per sbaglio. Finestre di un universo parallelo.

Ed io cercavo invano di effigiare il suo viso tra sgualciti pezzi di carta, fogli di quaderno, qualsiasi superficie per ammutolire la mia brama di vederla, di averla.

La disegnavo ovunque, con ogni cosa che trovavo, con le dita sporche di carbone, fango, mentre sognavo pastelli colorati, bastoncini di legno dalle punte affusolate che mi avrebbero permesso di tracciare quelle linee così perfette. 

Ricordo una schiera di matite che mi segava gli occhi, colorandoli di sfumature diverse, la mia brama di averle tutte, la disperazione di mia madre quando rubavo qualcosa, ma dovevo farlo.

- Solo due- mi ripetevo -due e basta: quella verde, e quella azzurra per riuscire a colorare i suoi occhi.

Ancora non sapevo che era impossibile disegnare l'infinito, che quei colori non facevano parte di questa terra.

Ricordo quando il proprietario se ne accorse, il dolore del bastone che mi colpiva in ogni angolo del mio corpo. Il legno falciava l'aria, lacerava la pelle, cozzava contro le vertebre, i gomiti, le gambe. Nulla potevano le mie mani davanti il viso, le mie urla di perdono. Lui colpiva e colpiva.  Lo  fece fin quando non ebbe più forza nelle braccia, fiato nei polmoni per urlarmi contro il suo disprezzo.

Un'ultima stangata sul viso , e poi se ne andò, lasciandomi a terra, tra la polvere e l'indifferenza degli altri.

Non so per quanto tempo rimasi lì, con il cielo impigliato tra le ciglia schiuse, ad ingoiare il sapore metallico del sangue che mi scivolava amaro lungo la gola.

E poi una raffica di vento, le sue gambe scarne nell'angolo delle mie pupille. Piedi nudi, croste secche che si alternavano a lividi, voragini di ossa.

-Vai via - ricordo la mia voce strozzata dal dolore, le braccia intorno alle costole per cercare di attutire quella sofferenza delle membra, quel bruciore della carne martoriata.

Tu sei velenoWhere stories live. Discover now