Capitolo Tredici

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«Mi risvegliai nella clinica di Wedenak, in uno dei tanti letti, accanto a chissà quanti altri Djabel. Sai, a Wedenak il soffitto è un ologramma di stelle. Erano quasi belle quanto quelle vere, ma formavano figure diverse da quelle che avevo visto nel cielo di Magastor. Ricordo che era la cosa più bella che avessi visto da un bel po' di tempo.

«Ma ciò che davvero mi faceva sorridere era che potevo sentire distintamente ogni beep di un macchinario che riproduceva il mio battito cardiaco. E ricordo che prese un ritmo sempre più rapido, man mano il mio cuore si riempiva di speranza.

«Potevo sentire di nuovo. Era come se lo sfregio fosse passato, o si trattasse di una semplice ferita che poi si era rimarginata.

«Il ritmo accelerato della macchina allertò i Megert, che si affrettarono al mio capezzale. Li fissai con occhi spalancati, sperando che mi rivolgessero la parola. Ma non lo fecero. Erano convinti che fossi sorda.

«Li sentii parlare della mia situazione. Erano disperati di avermi perso, di aver perso la Djabel del Dragone, come tutta la mia famiglia era già stata persa. Uno di loro chiese se si potesse fare qualcosa. Dopotutto ero solo sorda, diceva, e avrei ancora potuto combattere. Un altro ribatté che, se lo avessi fatto, avrei rischiato un altro sfregio, anche se forse sarei ancora stata in grado di creare illusioni.

«Mi venne naturale preoccuparmi di non riuscirci più, ma la faccenda passò in secondo luogo, sostituita dalla mia curiosità. Ascoltai con attenzione. I Megert ne sapevano di sicuro più di me.

«Poi uno prese la parola. Disse di essere dispiaciuto, ma di dover stare al protocollo. Disse che doveva portarmi a Noomadel.»

«A Noomadel?» ripeté Larenc. Erano le prime parole che pronunciava da un bel po', completamente stregato dal racconto di Kerol.

«Anche a me suonò strano» riprese la ragazza. «Ma i Megert sembravano convinti. Non aveva sbagliato a parlare. Un altro poi intervenne dicendo che sarebbe convenuto uccidermi, dicendo che sarebbe stato meglio che i Tesrat non si ritrovassero contro una Djabel del genere

Larenc aggrottò le sopracciglia, sempre meno convinto, ma sempre più sicuro di voler conoscere la verità.

«Continuavo a non capire, ma un'ansia stava crescendo in me. Era logico che mi fosse stato nascosto qualcosa di estremamente grosso. Avevo paura, ma ero anche molto curiosa. Troppo curiosa. Così ebbi un'idea. Decisi che avrei ascoltato, fingendo di essere sorda, e se avessi capito che intendevano davvero uccidermi, avrei finto di aver appena recuperato l'udito.

«Alla fine decisero di portarmi a Noomadel, anche se ancora io non avevo capito che cosa significasse. Prima mi caricarono su un Maglev, mi portarono fino a Fogad, e poi a Gejta. Per un attimo, temetti che mi avessero scoperto, e che volessero rinchiudermi in cella per aver finto uno sfregio. Dopotutto, l'Imperatore sapeva sicuramente che cosa mi era accaduto. Sapeva che stavo fingendo. Avrebbe potuto dirlo a quei Megert in ogni momento.

«Invece, mi condussero in una parte di Gejta di cui non avevo mai sentito parlare. Sembrava la replica di Wedenak. Era come una sala d'attesa nello studio di un medico. Mi resi conto ben presto di ritrovarmi in un'altra stanza piena di Djabel sfregiati, più o meno gravemente. Uno di loro continuava a ripetere frasi a vanvera. Era fastidioso, e avrei voluto urlargli di tapparsi la bocca, ma dovevo fingere di essere sorda, così mi sforzai di mantenere un'espressione impassibile.

«Quando venne il mio turno, mi condussero in una stanza dove vi era un macchinario molto strano, e un altro Megert, probabilmente l'unico in tutta Zena che sapeva come manovrare quel marchingegno infernale. La macchina cominciò a emettere un suono, una sorta di sibilo, partendo da una frequenza altissima e scendendo gradualmente. Capii che intendevano valutare le mie reazioni a diversi suoni. Alcuni erano terribilmente fastidiosi. Pensavo che mi avrebbero scoperto, ma a quanto pare, i Megert sono abbastanza negligenti, e non si interessano poi così tanto dei Djabel.

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