Capitolo 1

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Scivoliamo da un angolo all'altro della stanza, urliamo parole senza neppure soppesarne il senso, ci scagliamo una ferocia che non ha ragione d'essere ma che non sappiamo trattenere. Non ricordo come abbiamo cominciato, ma siamo qui chiuse in questa stanza: sconosciute incapaci di lasciarsi andare.

Ci fermiamo, mi appoggio alla parete e la guardo: i suoi capelli sono ancora intatti nello chignon e i suoi occhi così limpidi che mi è impossibile non arrendermi a lei – a noi: pedine inconsapevoli di un gioco cominciato tre anni prima senza alcuna logica.

La sua fronte si rilassa abbandonando la piega corrucciata «Siamo ridicole, siamo matte?»

«Forse.»

Si stringe il labbro inferiore tra i polpastrelli, scoppia a ridere e staccandosi dalla finestra mi prende le mani: ride della sua risata piena, ride della nostra discussione e ride della stanza centocinque che ci tiene dentro da tre anni.

Ridiamo, isteriche, ilari, illogiche.

Ridiamo tenendoci per mano come in un infantile girotondo. Ridiamo e cadiamo sul letto a braccia aperte e ridiamo ancora finché le risa diventano singhiozzi sempre più lenti che lasciano spazio al silenzio.

«Mi sei mancata» lo dico piano mentre sento la sua mano cercare la mia per stringerla. Il palmo della sua mano è più grande del mio, lo contiene e strofina le nostre pelli.

«Ho ottenuto una parte importante, sai?» I miei occhi la invitano a continuare e il suo petto si gonfia di orgoglio raccontandomi del suo ruolo in una serie televisiva «É stato merito tuo. Al provino, ti ho pensata. Mi hanno fatto provare la scena che avevamo imparato insieme, ricordi?»

«Perché ora che ci sei, ora che sei qui, io non voglio che tu vada via» ho il tono grave di una telenovela latina e questo le impedisce di rimanere seria, si piega su se stessa rotolando verso di me in una risata.

«Ti è andata bene che non ho partecipato al provino: avrei potuto soffiarti il ruolo, bellezza!»

«E saresti diventata la protagonista di un'assurda storia d'amore con un medico tossicodipendente che alla fine muore» esclama con spietata melodrammaticità fissando un punto imprecisato sul soffitto prima di voltarsi e aggiungere «O forse no. Vogliono farlo resuscitare nella prossima stagione!»

«Sei una necrofila sotto sotto allora!»

Ride cercando di nuovo la mia mano mentre il suo metro e settanta cerca protezione nell'incavo tra il mio collo e la mia spalla.

«Quindi sei diventata famosa?»

«La mia faccia è adesso su ogni autobus.»

«Lo prenderei più volentieri se potessi vederti ogni mattina.»

«Non prendermi in giro!» Resta in silenzio, col muso lungo, finché come un funambolo distratto rivela «A volte mi sono chiesta come sarebbe stato viverci, nella quotidianità.»

«Ogni giorno,» rispondo piano «l'ho fatto ogni giorno.» I miei occhi sono addosso a lei.

Lei tiene il capo alto, distante, preciso al soffitto «Ci saremmo ammazzate dalle risate, o di noia visto che tu sei quella seria.»

«Così alla fine ti saresti stancata di me.»

«Tu avresti finito con l'odiare il grugnito che faccio quando rido.»

«A malapena avremmo potuto passare del tempo assieme: ora che sei famosa, sarai sempre impegnata.»

«Saresti finita su tutti i giornali scandalistici e alla fine ti saresti stancata di non avere più una vita privata.»

«Oppure avrei cominciato ad avere la vita che volevo?»

«Nessuno avrebbe capito la nostra...»

«L'annosa definizione.»

I suoi occhi azzurri scavano nei miei scuri «Non rispondiamo, non ora. Non roviniamo tutto. Per favore.»

Ecco: così avevamo cominciato a urlarci addosso; cercando definizioni che non conosciamo. Respiriamo piano nella stanza centocinque che è immobile su di noi, con le sue pareti vittime di un morbillo artistico che ha appeso brutte copie di Monet e Degas in cornici verdi che richiamano la scrivania e il vecchio armadio dalle ante cigolanti e uno specchio. Lo stesso specchio che ci riflette, ma noi non lo guardiamo, non ci guardiamo: abbiamo paura di vederci lì riflesse, di scorgere qualcosa che fino a oggi abbiamo celato - o ignorato.

«Raccontami ancora di come tua madre ha scelto il tuo nome.» chiede a sottovoce.

«Lo ha sognato, non sapeva ancora di essere incinta. Ha sognato che mi stava aspettando e come mi avrebbe chiamata; quando al mattino l'ha detto a mio padre, lui pensava fosse matta! E invece eccomi qua.»

«Sei nata in un sogno, come tutte le cose belle.»

«Cominci a parlare come gli sceneggiatori della tua serie ora?»

«Cominci a fare la cinica?»

«Mi rende sexy.»

«Lo sei senza cinismo.»

Ci fissiamo poi lei si morde il labbro e si alza dal letto tenendo le braccia incrociate sul petto. Si volta verso di me di scatto «Non so perché l'ho detto.»

«Non importa.»

Ci sorridiamo sapendo entrambe di stare mentendo, di stare portando il mondo dentro la stanza centocinque, dove non avremmo mai voluto entrasse; dove non saremmo mai dovute entrare noi per prima?

«Sono stanca, vado a fare una doccia.» dice con occhi sfuggenti che toccano tutto senza sfiorar niente.

«Stai ancora insieme a quell'attore?» le domando mettendomi sui gomiti, ma lei non ascolta e chiude la porta del bagno dietro di sé, lasciandomi fuori, ignorando una domanda che brucerebbe su una ferita che non sapevamo di avere.

Ricado sul letto. Chiudo gli occhi, li strizzo sentendo le lacrime accumularsi agli angoli, stringo i pugni perdendo sensibilità nelle dita, perdendo la percezione del mio corpo finché d'improvviso è svegliato e caldo nell'aprire l'ingresso alle sue labbra. Quando riapro gli occhi mi trovo riflessa nei suoi, che è a cavalcioni sul mio bacino, protesa ad accarezzarmi i capelli prima di socchiudere le sue labbra sulle mie.

«Mi sei mancata,» mormora aprendo i miei pugni per intrecciare le dita alle mie «Mi sei mancata, e non lo volevo.» 


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Foto di RODNAE Productions da Pexels

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