Capitolo 1~ Perla azzurra

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La sveglia suonò. Il suo rumore fastidioso e metallico piombò nelle mie orecchie come un macigno, rimbombando nella mia testa e facendomi desiderare con tutto il cuore di poterla disintegrare con una mazzata. Fortunatamente era venerdì, e, cosa più importante, era l' ultimo giorno di scuola. Mi alzai trascinando i piedi, accolta dal silenzio della mia casa: mia madre era già uscita. Mi fissai allo specchio, provando davvero tanta compassione per chi avrebbe dovuto guardami, alzando mentalmente le spalle, come per dire "chi se ne importa". Sbuffando, mi avvicinai alla sedia/ armadio e mi infilai distrattamente un paio di jeans, una maglietta davvero amichevole con scritto "I hate you all", e il mio fedele paio di converse nere. Presi lo zaino, scesi, masticai due biscotti stopposi innaffiandomi di caffè e mi riversai per strada, come stavano facendo tutti in quel semplice venerdì mattina.

La mia città si chiamava Pearl City e Pearl City era una città monotona. Non fatevi ingannare dal nome perché, sì, capisco possa sembrare "carino" o "accattivante" come in molti che lo hanno sentito lo hanno definito. No, Pearl City non aveva e non ha nulla di particolare a parte il nome. Ho sempre odiato quel posto: spento, grigio, noioso. L' unica cosa che davvero apprezzavo era il mare. Amavo il mare sin da bambina, ed era l' unico luogo in cui mi sentivo davvero a casa, l'unico posto su tutta la terra che adoravo come se fosse stato mio. La spiaggia era isolata dal centro cittadino, dove si trovava la scuola, qualche edificio pubblico e altro che servisse a condurre una vita spenta e monotona. Alla spalle vi era una collina, sovrastata dall' imponente villa di una tale famiglia Smith, dei ricconi che non si facevano mai vedere, neanche per accompagnare la figlia Jennifer a scuola, una ragazzina odiosa e viziata. Io ero lì perché mia madre aveva deciso di trasferirsi dopo la morte di mio padre. No, non dispiacetevi per me: quando è successo avevo solo 5 anni, e non ho nulla di lui, ad eccezione di una foto in cui sorride e mi fa fare l' aeroplano.
La mia migliore amica, Viola, abitava a due passi da me fortunatamente, così quando mia madre tornava a casa ubriaca e con terribili mal di testa mi rifugiavo da lei e non tornavo finché non avesse smaltito l' alcol accumulato durante la giornata. Mia madre, Nora, non ha mai superato la morte di mio padre, e negli anni è andata peggiorando, cadendo in depressione. Ma tutto questo è stato alleviato dalla mia salvatrice, con i suoi occhi color cioccolata che mi trasmettevano calore solo a guardarli.
La vidi uscire di casa e salutare sua madre, Deborah, una donna che personalmente adoravo, dal sorriso sempre smagliante e dolce, accogliente con tutti e davvero amichevole. Feci un cenno ad entrambe con la mano, e la mia migliore amica mi venne incontro, esibendo la sua aria contenta e amata, che non nascondo mettesse anche me di buon umore. Ammetto tuttavia di averla invidiata: a casa aveva sempre qualcuno che la aspettava, le preparava il pranzo, si interessava della sua giornata e le chiedeva se era tutto a posto. Io non avevo nessuno, eccetto una madre fuori di testa da accudire e obbligare ad andare al lavoro per poter avere almeno il cibo in casa. Viola sapeva tutto questo, e mi permetteva di condividere il suo benessere invitandomi a pranzo e coccolandomi come poteva. Le ero molto riconoscente e non esitavo a dimostrarglielo, donandole soprattutto il mio immenso affetto.
Mi diede un caloroso abbraccio e mi raccontò il disastro combinato dalla sua sorellina a colazione: «Clhoe credimi, credo di non essermi mai arrabbiata tanto in vita mia» disse esasperata. Poi aggiunse preoccupata: «E tu? Hai mangiato?» chiese fermandosi improvvisamente. «Beh sì... più o meno...» aggiunsi in sussurro, per paura di essere sgridata. Lei infatti sbuffò, poi guardò con ansia l' orologio. «Abbiamo dieci minuti abbondanti. Vieni, ti offro la colazione».
«No Viola, non anche oggi per favore, davvero, sto a posto così, non sono a digiuno...» ma lei mi zittì e mi portò nel nostro bar preferito, un locale vivace e poco frequentato che stonava con il "grigiume" del centro. Ci accolse un profumo delizioso di pancake allo sciroppo d'acero e caffè, che Viola pensò di pagarmi ricacciando però subito la possibilità: sapeva che ne abusavo fin troppo. Optò invece per un dissetante thè freddo (senza teina, aggiungendo che era meglio per la mia salute e che il mio naturale nervosismo non dovesse essere incrementato) insieme ad un muffin al cioccolato con panna. Le sorrisi, ringraziandola, e lei scacciò con un gesto della mano l' idea di come avrei potuto ricambiare: «Per te questo ed altro. Per me sei come una sorella, e sei molto meglio di quella peste di Sandy». Sorrise, mostrando le fossette che rendevano unica quella risata, e poi mi trascinò fuori per un braccio inveendo contro il ritardo e il tempo che passa.
Andammo, o meglio, corremmo verso scuola, dove sciamavano ragazzi pronti ad abbandonarsi alle vacanze ed altri preoccupati per eventuali insufficienze da recuperare fino all' ultimo secondo. Io, nonostante la mia famosa pigrizia e il mio indiscusso amore per il letto o per tutto ciò che fosse notoriamente comodo, a scuola ero molto brava, e non esitavo ad aiutare Viola, anche se ciò significava permetterle di copiare durate i compiti in classe, o appostarmi dietro la sua schiena alle interrogazioni. Funzionava tutto a meraviglia fra me e lei: una strana sincronia, instauratasi nel tempo, ci permetteva di superare ogni ostacolo come se fossimo una persona sola. Ed era esattamente ciò che accadde quella mattina. La "smorfiosa", simpatico vezzeggiativo con cui soprannominammo Jennifer Smith, le tagliò volutamente la strada, facendola inciampare e vergognare nell' atrio. Il suo viso divenne violentemente rosso, e intorno a lei si creò un cerchio di curiosi. Non esitai a difenderla. Mi abbattei come una furia su Jennifer, inveendo contro di lei e il suo modo di fare, intimandole di fare lo stesso con me se ne avesse avuto il coraggio. Sbiascicò delle parole per poi rifugiarsi in classe, dove era già appostata la professoressa e non potevo attaccarla ulteriormente. Sebbene la nostra mattinata fosse stata interrotta da questo spiacevole episodio, la giornata proseguì velocemente.
Tornammo a casa lasciandoci alle spalle il chiasso dei ragazzi pronti a lasciare la scuola e dedicarsi all' ozio estremo. Viola non proferì parola, limitandosi a fissare il marciapiede con eccessiva intensità. Provai a smuoverla in ogni modo possibile, mettendo la sua canzone preferita e pianificando cosa avremmo fatto quell' estate. Vedendo che però si sforzava anche di rispondere a monosillabi, proposi un' uscita più fattibile: «Che ne dici di andare in spiaggia domani? Al nostro posticino, dove non ci disturba nessuno e siamo solo io e te... beh, che ne pensi?» La sua espressione cambiò in un lampo, e acconsentì volentieri.
Appena attraversata la soglia, non cambiò solo la mia giornata, ma le certezze stupide e banali di una vita si sfaldarono, rivelando qualcosa di assurdo e improbabile.
«Sai che ti dico? Tutto è stato un errore: prenderla quella notte è stato un enorme, terribile errore. Sapevo benissimo che non avrei potuto, che non avrei... voluto accudire una creatura. Non ho mai voluto figli. Mai. Ma perché l'ho fatto? Non lo so. I rimorsi, la consapevolezza che stavo tirando su un qualcosa che non ho mai voluto... Mamma non lo so, d' accordo? Cosa? Mi stai dicendo che ora sono obbligata? E chi mi obbliga a tenerla? È stato Paul, è stata tutta colpa sua, lui voleva figli e mi ha convinta che era la cosa giusta, che era la nostra opportunità. E poi è morto, mi ha lasciata sola e io ora non ce la faccio più, no io non...» la voce di mia madre arrivava ovattata attraverso la parete che divideva l' atrio dalla cucina, tuttavia incredibilmente sobria e lucida, come mai prima d' ora. La porta scattò, lei non proseguì e sentii il suo sangue ghiacciarsi nelle vene. Sentii la sua paura scorrere, come se mi temesse, convinta che io stessi ancora a scuola. Non sapeva che sarei uscita prima perché era l 'ultimo giorno, perché sarebbero iniziate le vacanze. Feci cadere lo zaino pesantemente, e mi avviai a passo lento verso di lei, elaborando ogni singola sillaba, ogni singolo fonema, ripassando tutto il discorso per poter citare le sue testuali parole. Sentii raschiare una sedia sul pavimento, sentii il suo corpo appoggiarvisi come se non potesse sorreggersi sulle gambe, mentre avvicinava a sé un bicchiere e vi versava quel liquido ambrato e dall' odore forte che conoscevo troppo bene. Fui più veloce di lei: a passo lesto entrai in cucina, interposi il braccio fra lei e il bicchiere, scaraventandolo lontano, lasciandolo cadere e frantumarsi in mille pezzi, proprio come la mia vita che, seppur fragile, aveva un suo equilibrio. Sussultò per il rumore dell' urto, si prese la testa fra le mani e iniziò a singhiozzare. «Smettila» le intimai caricando la mia voce di disprezzo. «Falla finita. Sii sincera per una volta nella tua inutile e spregevole vita». Trasudavo disgusto e odio, ripensando a come avevo accettato la condizione di figlia di una donna che stava andando in pezzi, e rassegnandomi alla mia predestinazione, accudendola, cercandola di notte e senza chiederle nulla, per paura di turbarla. A sette anni mi preparavo i pasti da sola, facevo i compiti da sola, e le preparavo le medicine quando si degnava di tornare a casa. Avevo imparato ad accettare e sopportare la gente che mi guardava e sussurrava "la figlia dell' alcolizzata", e ora venivo a sapere che potevo risparmiarmi tutto quello e che l' unico motivo che mi legava ancora a lei, ovvero la mia riconoscenza per avermi messa al mondo, si frantumava proprio come le mie più stupide certezze. "Prenderla quella notte è stato un enorme, terribile errore" rimbombava a ripetizione nella mia testa, senza darmi tregua e togliendomi il respiro. Mentre la mia bile cresceva in quantità spropositate, presi la parola e dissi: «Voglio sapere cosa è successo quella notte». Il mio tono duro non mostrava alcun segno del mio stato interiore, che si era deteriorato in un batter d' occhio, travolgendomi talmente velocemente che faticavo ancora a rendermene conto. «Cosa vuoi che ti dica...» disse fra i singhiozzi. Non la lascia finire e mi affrettai a dirle: «Per una volta in vita tua, la verità.» Prese dalla tasca un fazzoletto stropicciato e si asciugò le lacrime, e nell' osservarla mi chiesi perché piangesse: se non mi aveva mai voluto, che motivo c' era di dispiacersi?
«Era sera. E io e tuo padre...» si interruppe, poi riprese «io e Paul stavamo cenando. Eravamo in crisi perché il nostro matrimonio non funzionava più da tempo... e lui diceva sempre che ci serviva qualcosa, come un figlio appunto, che ci unisse. Poi hanno suonato alla porta, e lui è andato a vedere chi era. Non c' era nessuno, solo una bambina avvolta in uno strano tessuto... sembrava seta... a fianco c' era un biglietto con scritto il tuo nome». Mi presi la testa fra le mani, sconvolta. Non mi avevano voluta per ben due volte: i miei genitori naturali perché mi avevano abbandonata, e ora Nora, che si era spacciata per mia madre per tutto quel tempo. Ma tutti i miei pensieri ormai ruotavano attorno a quel biglietto. La grafia, forse, mi avrebbe aiutata a rintracciare chi lo aveva composto, tracciando lettera per lettera il mio nome. E inoltre lo strano tessuto... poteva essere simbolo di ricchezza? Mi chiesi se sarebbe emerso che ero la sorella di Jennifer Smith, la ricca ragazza di scuola. In effetti i suoi genitori non davano l' impressione di saper provare affetto, avrebbero potuto abbandonarmi tranquillamente. Ricacciai subito l'idea: avrei preferito l' orfanatrofio piuttosto che finire in quella casa. «Hai il biglietto?» chiesi in tono serio e non più adirato. Sbatté gli occhi castani, rossi e gonfi per il pianto, con fare perplesso. Le mie speranze svanirono immediatamente. La sua espressione parlava chiaro, e l' unico oggetto che potesse ricondurmi alle mie origini era sparito da tempo. Sbuffai, e lei si alzò e prese la borsa. Prese il portafoglio, e credetti volesse darmi dei soldi per lasciare per sempre la sua casa. Invece, dalla sua carta d' identità tirò fuori un foglietto piegato con cura, ma che comunque mostrava i segni del tempo attraverso piccole pieghe e tagli. Me lo porse, e vidi una grafia chiara ed elegante. Era stato scritto con cura, e non alla svelta. Il fatto che fosse una calligrafia ordinata e precisa mi avrebbe aiutata nelle ricerche. «Beh... grazie...» dissi quasi riconoscente. Le chiesi del tessuto, e lei, tirando su con il naso, disse che lo aveva perso, anche se era convinta di averlo riposto in un cassetto. Aggiunse anche che nel bar dove lavorava controllava sempre se qualche cliente lasciava scritto qualcosa, poi lo confrontava con il pezzetto di carta e cercava di risalire ai miei genitori. Ciò però non aveva dato frutti fino a quel momento. La ringraziai e salii in camera mia.
Mi gettai sul letto con la testa pesante , mille pensieri ruotavano nel mio cervello senza un ordine, contribuendo solo ad aumentare l' entropia che mi circondava. Pensai che forse era il caso di avvisare o vedere Viola, ma non ero dell' umore adatto, e preferii restare da sola. Le scrissi solo un breve messaggio, dicendole che erano successe cose imprevedibili e impensabili e che le avrei raccontato tutto l' indomani. Quando mi rispose non mi chiese cosa fosse successo, e lo apprezzai molto: uno dei tanti pregi della mia migliore amica era la discrezione unita alla pazienza. Per questo mi risultava tanto facile confidarmi con lei.
La giornata passò lentamente, e a cena mi limitai a sbocconcellare un po' di pane. Prima di addormentarmi guardai ogni dettaglio del mio nome. La C era stata tracciata con fare deciso, e aveva una forma insolita, scritta in un corsivo che non usano in molti. Forse questa persona avrebbe potuto spiegarmi se la lettera H dopo la L, e non dopo la C, era stato un errore di trascrizione o una scelta voluta. Tutti mi dicevano che "Clhoe" fosse errato, e che forse intendevo "Chloe". Invece io mi arrabbiavo ogni volta che lo vedevo scritto diversamente. La mia mente non resse il peso di tutte queste considerazioni e mi addormentai, tuttavia non prima di aver riposto il foglietto sul comodino.
Mi svegliò un terribile odore di bruciato. Corsi in fretta in cucina, e ad attendermi c' era un pancake leggermente annerito. Aveva la forma di una faccina sorridente. A fianco c' era una tazza di caffè con attaccato un post-it con scritto "Scusami..". Cercai una penna e aggiunsi il terzo puntino di sospensione, immaginando che, se fosse stata presente, le avrei detto che due o sette puntini non avrebbero diminuito o aumentato la suspense e che sarebbe da considerare un errore di punteggiatura. Ma che ne poteva sapere una cameriera che si era a stento diplomata? Mi limitai ad alzare gli occhi al cielo. Girato l'appunto trovai annotato un post scriptum: "Ho provato a farti la colazione, scusami se non è proprio il massimo. Non sapendo con cosa volessi condirla ti ho lasciato lo sciroppo d'acero e la marmellata di more (li ho comprati questa mattina). Sono anche andata a fare una fotocopia del famoso biglietto, l' originale l' ho lasciato a te, mi sembrava giusto così. Nora" Gettai un' occhiata alle confezioni ancora sigillate, e versai una generosissima dose di marmellata sul pancake, con la quale divenne abbastanza commestibile. Alcune parti erano troppo cotte, altre troppo crude, ma i frutti di bosco attutirono i sapori. Riflettei sulla firma, Nora. Il fatto che non avesse concluso con mamma voleva significare che volesse essere chiamata per nome. A me stava bene così, avremmo evitato una lunga trafila di noiose pratiche legali per lasciare posto ad una convivenza pacifica, seppur distaccata. Lavai in fretta le stoviglie e mi preparai ad uscire. Corsi da Viola, che già mi aspettava sulla porta. Portava dipinta in volto un' espressione preoccupata e seria, ma mi rivolse comunque un sorriso, seppur non raggiante come sempre.
Andammo in spiaggia, e nel mentre le raccontai la verità su quella che ritenevo mia madre, mostrandole il biglietto. Rispose alla mia implicita domanda, e cioè se avesse già visto una grafia del genere, scuotendo la testa, a metà fra l' incredulo e lo sconcertato. «Mi dispiace tanto Clhoe, hai dovuto sopportare tutto questo senza che ne valesse davvero la pena... e ora? Che intendi fare?» giocherellava con una ciocca di capelli, arrotolandola sul dito, e aspettava una risposta che secondo me non era degna del nome. «Non lo so... Nora dice che confronta questa calligrafia con quella dei clienti, avevo pensato di fare lo stesso, anche se sono un po' scettica... Comunque se non mi hanno voluta appena nata, che motivo hanno di volermi adesso?» Il suo volto si rattristò, e capii che le dispiaceva per la mia condizione di "bambina abbandonata". A me non faceva di certo piacere, però non mi crucciavo inutilmente. Arrivammo in quello che definivamo il nostro angolo di paradiso: un fazzoletto di sabbia era racchiuso nella cavità naturale della costa a strapiombo. Davanti si stendeva il mare cristallino che, a seconda delle stagioni e della luce, cambiava tonalità, passando dal verde acqua al grigio perla. Era molto difficile scendere l' erto sentiero che portava laggiù, ma io e Viola eravamo abituate, e, anche se talvolta inciampavamo e ci facevamo male con le rocce, superavamo la stradina senza troppi problemi. Non vi si poteva giungere neanche in barca: una corrente naturale perenne, situata a qualche metro dalla costa, spingeva verso il largo chiunque le si avvicinasse. Io mi tuffai subito, lasciando che l' acqua fresca lavasse le preoccupazioni e le tensioni accumulate, e mi immersi in profondità. Sentivo il mio cuore pulsare nelle orecchie, e l' assenza di gravità mi dava la sensazione di essere senza peso, leggera e indistruttibile. Non sentivo nemmeno la necessità di tornare in superficie e respirare. Lasciai che le onde lenissero le mie ferite interiori, e mi crogiolai nell' utopia che lì fossi al sicuro. Aprii gli occhi, per lasciare che il blu dell' oceano si fondesse con quello delle mie iridi. Fu allora che la vidi: una piccola pietra azzurra emanava un tenue bagliore fra gli scogli. Ripresi aria e mi avvicinai. Viola mi raggiunse e mi fermò, tenendo ben saldo il mio braccio. Alla mia espressione perplessa rispose con voce lugubre: «Non sai la leggenda che diede il nome a questa città?» scossi il capo, e lei proseguì «si racconta che nelle profondità del mare ci sia una perla maledetta. Il suo valore è inestimabile, ma tutti quelli che hanno provato a prenderla sono morti nel tentativo». Scoppiai a ridere, ma lei rimase seria. «Dove hai sentito questa follia?» abbassò il capo e disse «mio nonno...» Sapevo che teneva moltissimo a suo nonno, un vecchio pescatore che abitava a Pearl City dalla nascita. Conosceva tutti i segreti del mare, e fu lui ad indicarci la spiaggia. Non era mai stato però saldo di mente, e in effetti era abbastanza stravagante. Viola mi aveva raccontato che addirittura una volta aveva incontrato George Smith, il padre di Jennifer, e lo aveva assalito urlandogli di essere un criminale legato alle streghe. Cercai di tranquillizzarla: «Viola è una favola, e questo è solo un sassolino carino » dissi indicandole la pietruzza. Mi tuffai e lasciai i suoi strepiti alle mie spalle: nulla poteva destabilizzarmi se ero in mare. Il bagliore diventava sempre più forte, e una volta raggiunto tesi la mano. La curiosità era alle stelle, e quando sentii la superficie levigata dell' oggetto, accadde qualcosa di inaspettato: la terra tremò ma io tenni ben salda la presa. Si aprì una piccola voragine, e le urla della mia migliore amica erano talmente forti che le sentii anche sott' acqua. "Mettiti in salvo" pensai preoccupata per lei. Avevo ancora aria nei polmoni e decisi di tentare un' ultima volta di togliere la perla dalle rocce. Strattonai con quanta forza avevo in corpo, ma l' unico risultato che ottenni fu quello di far ingigantire la crepa nel fondale, che iniziò a risucchiare acqua, che vorticava pericolosamente. Mi aggrappai alla pietra, che, seppur piccola, era ben incastonata, ma non servì a salvarmi. Una roccia sollevata dalle corrente mi ferì la gamba. Tenni chiusa la bocca per non sprecare aria, ma un dolore lancinante si propagò nel mio corpo. La ferita, a contatto con la salsedine, bruciava, e un colore rossastro si diffuse in mare, sporcandolo.
Mentre venivo trascinata verso il basso, sentii la mia mano portare con sé la causa di tutto quello sconvolgimento. L' ultima cosa che vidi, però, fu il mio sangue.

Angolo Autrice:
Okay ragazzi, penserete io sia matta (e avreste ragione) ma mi sono accorta che troppe cose nel libro non vanno. Al di là della storia che è sconnessa, perché l'ho aggiornata lasciando passare troppo tempo, il lessico non mi piace, e neppure la sintassi. Vorrei che apparisse come un libro vero e ciò richiede tanto impegno ma soprattutto continuità. Approfitto dell'estate per: revisionare la grammatica, la storia, approfondire i personaggi e migliorare la lunghezza dei capitoli di almeno 5000 parole ciascuno. Questa mia scelta non nasce dall' "oddio i capitoli corti sono terribili allunghiamo il brodo nel peggior modo possibile". È ovvio che non bado alla quantità ma alla qualità, però credo che leggere una storiella corta e insignificante sia deleterio. Voglio che abbiate davanti uno scritto fatto seriamente e spero capirete. Fino ad adesso ho fatto delle "bozze" per così dire, ora mi impegnerò affinché il lavoro sia completo ma anche interessante.
Spero capiate e successivamente apprezziate il mio sforzo. Un bacio❤

L' Acqua e il Fuoco: L' Elemento Perduto Where stories live. Discover now