Capitolo 43~ Il Regno dei Draghi d'Argento

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«CLHOE! SVEGLIATI! APRI GLI OCCHI!»

La voce di Ignes era così distante, inconsistente. E io vagavo chissà dove nei meandri della mia mente, così vasta e inesplorata. Il buio mi avvolgeva come una coperta, le grida si facevano sempre più lontane, io sempre più leggera. Volavo, forse, immersa in una notte senza stelle, un velo scuro e minaccioso, eppure così calmo e quieto. Avevo cominciato ad autodistruggermi, forse. Sospesa nel vuoto, mi resi conto che lottare non serviva, non serviva opporsi. No, non serve. Cantilenò una celestiale creatura. Abbandonati a me, Clhoe, e tutto questo paradiso sarà tuo. Sì, mio. Era quello che volevo: fluttuare in un cosmo senza dolore, senza obblighi, senza paure. Un cosmo vuoto e perfetto per la sua forma spenta. La materia non esisteva, io non esistevo. La mia anima si riduceva ad un puntino minuscolo, vano. E quella creatura mi chiedeva di lasciarmi andare, si sarebbe presa cura di me. Prenditi cura di me, le chiesi. Ma prima che rispondesse mi sentii cadere, attratta dal basso. Il mio copro riprese pesantezza, e il torpore svanì, sostituito da un ben meno piacevole dolore diffuso tra le ossa. Avevo il naso schiacciato sul pavimento e mi accorsi di essere sudata, avere il fiatone e le mani gelide. Gran parte del mio letto era ghiacciato, e alcuni dardi erano stati lanciati contro una vetrata, ora in frantumi sul pavimento blu. «Oh mio dio! Clhoe!» Ignes mi prese per le spalle e mi girò. Fui scossa da un tremito, e percepii di avere gli occhi asciutti, dovevo sbattere le palpebre, ma non ci riuscii per quanto erano spalancate. Il mio corpo era rigido, stavo digrignando i denti. I muscoli della mandibola cominciarono a farmi male, ma non riuscivo a rilassarmi e a controllarmi. Ero paralizzata. «Starai bene... credo» borbottò sconvolta. «Oddio quanto pesi!» si lamentò mentre mi tirava su e mi stendeva sul letto. Ci passò una mano sopra e sciolse il ghiaccio, facendo evaporare l'acqua e creando una nube calda. A poco a poco mi rilassai. Mi tirai su a sedere e respirai come se fossi riemersa da pochissimo tempo. Tossii e mi piegai per lo sforzo. Mi faceva domande, ma io agitai le braccia per rimandare l'interrogatorio. «Santo cielo... sono morta» provai a dire con la gola secca. Se non mi conoscessi bene avrei detto di aver fumato chili e chili di tabacco.
Mi porse un bicchiere e mi obbligò a mandar giù una poltiglia strana, densa e dal retrogusto acre. «Che diavolo è?» le chiesi preoccupata. «Una pozione che ti farà riacquistare un po' di forze». Non ne ero sicura, ma mi fidai. Il sole faceva capolino pigramente, e le schegge sul pavimento ne riflettevano la tiepida e non troppo intensa luce. Mi alzai e cominciai a vestirmi, sotto lo sguardo sbalordito di mia sorella. «Vuoi davvero andare a lezione?» domandò in tono quasi ironico. Io annuii, mentre la mia testa sbucava dal vestito. «Esattamente» le confermai. «Sai almeno cosa ti è successo?» proseguì. Scossi la testa, e infilai delle penne, qualche foglio e una boccetta di inchiostro nella borsa. «Dovremmo parlarne con qualcuno» propose infine. «A che scopo? Se non lo sai tu chi può dircelo?» la contraddissi. Lei si sedette sul letto e scacciò quel che rimaneva del vapore con un gesto della mano. Eseguì l'incantesimo aggiusta-tutto e rimise al suo posto la vetrata. Mentre mi mettevo le scarpe la guardai, e mi sorse un dubbio: «Sei volata fino a qui?» le chiesi incredula. «Sì» ammise. «Ma... da Antares...»
«A volte mi paralizzo e non ci riesco. Non chiedere altro» mi interruppe.
Mi accompagnò a fare colazione gettandomi di tanto in tanto occhiate perplesse, oppure preoccupate. Forse temeva mi sarei accasciata di nuovo a terra. Forse aveva ragione. Al nostro tavolo c'era solo Dave, gli altri due geni evidentemente non avevano voglia di frequentare le nostre noiose lezioni.
«Che c'è? Hai visto la morte?» mi chiese dopo essersi innaffiato di latte e cereali. «Più o meno» brontolai.

La mattina non fu difficile da smaltire. Fummo però caricati di compiti dal professor Taedium, improvvisamente esperto di mitologia egizia. Ci avevano raggiunti tutti e ci stavano aiutando, anche se la fata delle ombre non era molto propensa a collaborare. «Qual è la prossima divinità?» domandò Meilì in tono rilassato. Beata lei. Sfogliava pigramente un volume riguardante l'argomento, cercando le risposte ad ogni folle quesito insieme ad Ignes. Matt tentava di far scrivere quelle due cavolate a Dave. «Bast» risposi. «E avanz» concluse lui. «Oh ti prego!» sbottai irritata, non tanto dalla sua battutaccia (ormai ci ero abituata), ma dal fatto che tutti e tre quegli idioti ridevano come matti. «Vi odio, sappiatelo» ribadii. E Matt era quello più divertito, mentre Meilì si lasciava corrompere da quella pessima influenza. «Sentite, non ho voglia di passare qui il resto della mia vita» tentai di catturare la loro attenzione. Ma ormai erano partiti per la tangente, e non sembravano minimamente intenzionati a fermarsi. Dovetti aspettare 10 minuti prima che si ricomponessero dopo quella stupida frase. Era estenuante. Quando mi resi conto che dovevo andare ad allenarmi li mollai dove si trovavano, sperando che qualcuno li sgridasse per la confusione.
Luglio era caldo e torrido, appiccicoso, umido. Solo il boschetto proteggeva da quella calura, e per fortuna dovevo costeggiarlo per arrivare al campo. La spada e la faretra pesavano, per non parlare dell'armatura che avrei dovuto indossare. Era davvero troppo pesante, e quel pazzo di allenatore ce la faceva indossare ormai da due giorni, perché dovevamo abituarci al peso. Io però avrei deciso che l'avrei fatta incantare piuttosto che morire dentro una lattina su misura. «Sempre in ritardo Fatillicis» mi accusò. «Ma se sono in anticipo di 5 minuti!» esclamai piccata. «Tutta colpa di quel ninnolo che ti porti appresso». Non aveva alcun senso: l'aerometro non segnava l'ora, ma la direzione del vento, e quello si ostinava a dire che fosse colpa sua per qualsiasi cosa. Sì, me lo ha già detto Ignes: mi odiava, quindi faceva di tutto per incolparmi, anche dire stupidaggini.
«Fatillicis, con Auris» mi liquidò. No, nel caso in cui te lo stessi chiedendo, non ho fatto i salti di gioia. «Come va, Clhoe?» mi chiese in tono troppo spavaldo. La voce era metallica ed echeggiante per via dell'elmo. «Interessa alla tua ragazza?» risposi facendo roteare la spada e parando il suo debolissimo colpo. «Che c'è, fatina, sei gelosa?» non contrattaccai a parole, ma a suon di mazzate. "Fatina"? Ma che diavolo...? Con qualche montante ben assestato lo mandai a terra, e con il piatto della lama gli tolsi la protezione della testa, scoprendo i riccioli dalle sfumature dorate. Continuò a fissarmi irriverente. Gli puntai la spada alla gola, e lo avvertii: «non ti permettere mai più di chiamarmi così o di pensare anche solo per sbaglio che io possa essere gelosa». Tentò di dimenarsi, facendomi intendere che non mi prendeva sul serio. Così lo accontentai e appoggiai la parte tagliente dell'arma sul suo morbido collo. «Ricordati che ti ho salvato la vita» ringhiai. «Ringraziami, principino» lo sbeffeggiai . Scappò via non appena l'energumeno ci disse di andare. Matt mi venne incontro, il volto buio e arrabbiato. Fissò in maniera truce il ragazzo per tutto il tragitto. Poi si voltò verso di me e con aria altrettanto risentita sbottò: «perchè non me lo hai detto?». Alzai gli occhi al cielo e mi pentii di essere stata salvata da mia sorella. «Non ne ho avuto tempo» inventai sul momento. «So cosa ti è successo» sentenziò dopo un lungo attimo di silenzio, perciò lo invitai a proseguire. «Come con la bacchetta: stavi cercando di autodistruggerti, questa volta seguendo quello che ti diceva la voce. La tua parte razionale però ha mandato quel segnale frantumando la finestra e così Ignes è accorsa. Tuttavia credo ti sia capitato lo stesso che è successo alla tua madre adottiva» gli piaceva fare ipotesi e avere risposte, quindi lo lasciai parlare. La sua idea era sicuramente meglio del mio niente. Sfortunatamente non avemmo il tempo di approfondire: Ignes arrivò trafelata, brandendo una lettera appena sfornata dal barattolo. «Floridiana... ci vuole... nel Regno dei Draghi d'Argento» sospirò. Ma non potevo eseguire una dislocazione avanzata perché non conoscevo affatto quel luogo, per cui, seduta stante, mi ritrovai a riempire la mia valigia magica e a prendere una carrozza. Io e mia sorella parlammo di qualsiasi cosa, prima di addormentarci l'una sull'altra. Io probabilmente le sbavai sul vestito, ma non lo saprà mai.
Non sapevo di preciso quanto distassero i due regni, ma quando ci svegliammo era l'alba, e all'orizzonte si profilava una distesa di alberi completamente blu, e in lontananza vidi degli splendidi draghi dalle squame grigie che rilucevano al sole. «Sono bellissimi!» esclamai sporgendomi dal finestrino. «Già... Meilì è fortunata» concordò mia sorella. Poi il suo volto si rabbuiò e tacque. «Qualcosa non va?» le chiesi in tono gentile. Lei guardò in basso, e rispose: «questa è la foresta parlante. Una volta, a causa di un incendio, la prima fila di alberi si sacrificò per impedire alle fiamme di consumare anche i compagni. Per cui io non sono vista di buon occhio». Era rammaricata, ma farle notare che ovviamente non era stata lei ad appiccare l'incendio fu inutile. Mi sporsi ancora una volta, e notai che tra i tronchi nodosi si sorgevano volti, e che il fruscio delle foglie mosse dal vento, se ascoltato con attenzione, era un canto lento e immortale. Rimasi estasiata a tal punto che non dissi più nulla fino al nostro arrivo.

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