Cap 11

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Sentivo la pelle bruciata dalla febbre, la schiena schiacciata dal mio corpo inerme, come se la forza di gravità avesse quadruplicato il suo effetto. Galleggiavo in un mare in tempesta e la nausea mi strozzava la bocca dello stomaco. C'era silenzio per il più del tempo, inframmezzato da parole ovattate e sconosciute, come il suono di un altoparlante in lontananza. Solo una volta, fui certa di riconoscere il timbro di una voce familiare, solo poche sillabe urlate al vento: "E' un ordine dell'imperatore." Poi fu tutto inghiottito dalla bufera. Continuai per parecchio tempo, senza una meta, senza un punto di riferimento, in un mondo sconosciuto e ostile.

Fino a quando riconobbi una luce rosata, una nuvola nel cielo che non riuscivo a mettere a fuoco, mi feriva gli occhi. Ritornò altre volte e ogni volta, la consapevolezza di doverla seguire mi riportava più vicino alla terra ferma. Fu uno sforzo dilaniante, anche perché portava con sé un dolore acceso e bollente come il fuoco. Alla fine, fu proprio il dolore a riaccendere le mie sinapsi, a farmi prendere coscienza che c'era qualcosa di sbagliato in quell'oblio che mi circondava, così tanto da volermi ribellare a lui.

Aprii faticosamente le palpebre e la semioscurità che trovai mi diede coraggio. Inspirai con forza, come se fossi vissuta per anni sott'acqua e l'ossigeno mi aiutò a tornare in me. Vidi un soffitto incastonato in un quadrato iridescente, azzurrino e delicato. C'era una porta alta, monocromatica, senza maniglie.

Inspirai di nuovo e mi concessi il lusso di girare lentamente la testa. Trovai una parete meravigliosa, dove fluttuanti simboli azzurri si muovevano e danzavano, come tante lucciole dal colore sbagliato. Simboli sconosciuti e altri familiari, che inspiegabilmente seppi leggere. Un lungo tubo si dirigeva inquietante verso di me, fino al mio braccio disteso su quello che riconobbi essere un materasso. Ritornai agli schermi al plasma e finalmente il quadro divenne chiaro: pressione sanguigna, battico cardiaco, livello di idratazione. Ero in un ospedale, monitorata.

Inghiottii a forza e capii che fortunatamente non ero intubata, ma potevo respirare da sola. Ritornai ai simboli e stavolta ne analizzai i valori: non erano tutti perfetti, ma nel complesso mi accontentai. Il dolore invece era costante e insidioso, proveniva da un arto inferiore e non mi lasciava un istante di riposo. Stremata da quell'analisi, decisi di richiudere gli occhi e tutto svanì.

Quando mi risvegliai c'era più luce; voci indistinte e lontane creavano un leggero brusìo di sottofondo. Intravidi un'ombra muoversi vicino a me e ne approfittai subito:

"Acqua" chiesi con voce gracchiante e così debole che dubitai mi avesse sentito.

Invece una mano fresca mi sollevò delicata la testa e mi avvicinò una cannuccia alle labbra. Bevvi avida, cercando di mettere a fuoco la figura.

Una voce gentile mi precedette: "Non sforzarti, riposa ancora un po'" Così le ubbidii.

Fui risvegliata da un tocco leggero, una carezza delicata fatta con la punta di un coltello sopra la mia mano. Sollevai a fatica il braccio per capire cosa fosse, ma si fermò. Ripoggiai la mano sul lenzuolo, sperando che riprendesse. Quando non arrivò nulla, chiesi senza pudore: "Ancora"

Un sussurro indefinito mi chiese: " Ancora acqua?"

"Ancora carezze..." e risollevai leggermente il braccio per far capire. Subito dopo ritornò il coltello a disegnare cerchi lenti sulla mia pelle.

Una mano fresca avvolse le mie dita e le sollevò, prima che due labbra morbide e vellutate vi si posassero sopra. Fu sola allora che lo riconobbi e il monitor traditore svelò come il mio cuore fosse felice di trovarlo lì.

"Iliakòs" chiamai.

"Sì Jewel, sono qui." mi rispose subito.

"Sto tanto male?" domandai, decidendo di provare ad aprire gli occhi. Volevo vederlo in volto, mentre mentiva sulle mie condizioni.

Come artigli sul vetroDonde viven las historias. Descúbrelo ahora