3. Bagliore

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Mi ero fermata a quasi più di un chilometro da scuola e stavo seduta su di un muretto che divideva la strada dalla campagna. 

Il cinguettio degli uccelli e il cielo, di un azzurro intenso, trasmettevano una pace diametralmente opposta alla mia tempesta interiore: un vortice di rabbia, angoscia e sensi di colpa; se fosse stato un drink alcolico sarebbe stato un mix letale.

Nella mente rimbombavano ancora le risate dei miei compagni, il sorriso trattenuto a stento del nuovo arrivato e l'aria soddisfatta della preside nell'avermi — secondo il suo parere — colta sul fatto. Avrei pagato per ridere pure io di quella scena, per avere la forza necessaria di incassare il colpo senza cadere, la giusta sfrontatezza per risponderle a modo: "Disegno la mappa della scuola, così se mai dovesse arrivare in ritardo potrà evitare di incontrarla nei corridoi". Sarebbe stato stupendo se davvero fosse accaduto ciò, ma purtroppo agivo sempre d'impulso e il mio cervello non razionalizzava subito le situazioni quindi le migliori risposte da dare mi venivano sempre dopo. Non avrei mai voluto dare soddisfazione a tutti loro che, come degli aguzzini, aspettavano il mio crollo. 

"Il crollo." 

Sì, era facile intuire che prima o poi sarebbe arrivato, come se fossi appena uscita dall'occhio del ciclone e mi trovassi nell'estremità del vortice, dove il vento spazza via ogni cosa. La cosa strana e inquietante era che la causa del ciclone emotivo fossi proprio io, l'uragano dall'altissimo potenziale distruttivo era la mia mente e tutto ciò che vi era al suo interno: ricordi dolorosi, incubi tremendi, l'apatia che ormai mi aveva avvolta.
Il ricordo di mia sorella morta al mio fianco mi struggeva l'anima, mi tormentava, e il vuoto che si era creato non si sarebbe mai più riempito. Potevo percepirlo benissimo, quasi vederlo materializzato ogni qualvolta chiudevo gli occhi: un cratere al cui interno non vi era nulla, nient'altro che l'abisso più oscuro. 
L'uragano devastava me e nessuno poteva aiutarmi. Nessuno. Non potevo negare che mia madre ci avesse provato, anche lo psicologo che mi seguiva ci aveva messo i mezzi giusti e, se non fosse stato per le mie notti insonne invase di paura, sarei stata diversa.

Ero come difettosa, una parte di me — quella viva — aveva incubi ogni notte da mesi, l'altra parte di me — quella morta con Tanya — era vuota, senza interessi, priva di impulsi. Ero dilaniata da dubbi, domande, incertezze e paure, ma fra tutti il quesito più pericoloso da porsi era sempre e solo uno: "perché è successo proprio a me?" Una domanda a cui nessuno mai avrebbe potuto dare risposta. «È la cosa più inutile da chiedersi» mi disse mia madre una notte che era venuta a svegliarmi dopo un incubo. Lei aveva ragione, anche se quel giorno in chiesa, tra l'odore dell'incenso e la mia mano che accarezzava la bara della mia unica sorella, l'avevo chiesto pure a Dio nella speranza che tutto questo dolore stesse servendo a qualcosa.

Gli occhi mi pizzicavano ancora, ma ormai mi ero calmata, avevo smesso di piangere provando a razionalizzare gli eventi. Dopo aver soffiato il naso presi a fare i miei soliti respiri profondi. Funzionavano sempre. Ormai erano un abitudine per liberare la mente e scrollarmi di dosso quei pensieri negativi, dovevo smetterla di punirmi così ogni volta; non aveva senso pensare a tutte le cose negative che mi circondavano. 

Con un balzo scesi dal muretto e mi avvicinai al motorino, alzai il sellino dello scooter, presi le mie Malboro rosse e ne accesi una: la nicotina era sempre stata un ottimo modo per conciliare i pensieri. Avevo iniziato a fumare tanto per provare circa l'anno prima — con disappunto di Tanya — sicura che non avrei mai preso il vizio, ma il mio gesto di accendere una sigaretta nei momenti di forte stress parlava da solo: ne ero totalmente dipendente.

Ripensai alla preside, strinsi il pugno libero mentre continuavo a fumare con gli occhi chiusi: dovevo scemare quella rabbia che iniziava a farsi strada tra il senso di umiliazione provato. Perché mi aveva trattata in quel modo? Va bene che non le stavo molto simpatica, ma addirittura prendermi in giro davanti a tutti? Speravo che mi desse almeno un mese di sospensione, così non avrei rivisto nessuno — soprattutto lei — per un buon lasso di tempo. Guardai l'ora sul mio orologio verde, mancavano circa quindici minuti alla fine della prima ora di lezione. Sarei dovuta tornare a scuola? Ovvio, ma non mi andava, almeno non quando l'intera scuola mi avrebbe vista ritornare. La consapevolezza che non sarei mai dovuta scappare iniziava a farsi strada, sarei potuta benissimo rimanere nei bagni, ma andarmene in quel modo era stato un grosso, grossissimo sbaglio. Cosa sarebbe accaduto adesso? Cosa avrebbero detto i miei nonni? Sarei stata in punizione a vita?

Lost SoulWhere stories live. Discover now