VI.

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Hope

Avevo passato l'intero pomeriggio fissando l'entrata della biblioteca mentre distrattamente raccoglievo i libri lasciati sui tavoli, sperando di vedere quel ragazzo moro varcare la soglia e sedersi accanto alla finestra con le cuffiette nelle orecchie. Avevo notato che nonostante tenesse aperto un libro davanti a se, i suoi occhi non puntavano mai sulle pagine. Probabilmente non gli interessava affatto immergersi a capo fitto in una lettura, ma rimaneva ore in biblioteca per la calma che solo quel posto in tutto il college, era in grado di regalare.

Quella mattina non avevo fatto altro che correre da un'aula all'altra per riuscire a seguire tutte le lezioni senza perdermene l'inizio, che reputavo la parte più interessante e meno noiosa e anche quando Jaden mi aveva fermata sorprendendomi, non avevo avuto il tempo di dirgli nulla, se non che ero ancora una volta di fretta.

Quando il mio turno di lavoro finì senza che il posto accanto alla finestra venisse occupato da lui, una nota di amareggiante delusione mi accompagnò fino alla mia cameretta. Non capivo per quale motivo mi fossi aspettata per tutto il giorno di vederlo varcare l'entrata della biblioteca. Il cielo era limpido e i raggi del sole riscaldavano con il loro tepore. Era una giornata rara per il tempo di settembre inoltrato, per lo più dominato dalla lugubre cappa grigia e all'infuori della mia presenza, i tavoloni erano deserti.

Arrivata nel dormitorio e raggiunta la mia stanza, l'ultima del corridoio, in attesa dell'orario di cena mi buttai a peso morto sul letto, ricevendo in cambio come segno di disappunto un fastidioso cigolio delle doghe. Prima che potessero scattare le 19:30 mi alzai con fare svogliato e tirai fuori dall'armadio il necessario per il giorno seguente. Gli scricchiolii delle ante in legno vecchio non mi permettevano di poterlo aprire alle prime luci dell'alba quando mi svegliavo per uscire, così ero costretta a farlo la sera.
Ormai, nonostante fossero trascorsi solo pochi giorni dal mio arrivo, avevo impostato una routine che consideravo perfetta per non dimenticarmi di nulla. Quando mi svegliavo fuori era ancora buio, solo in lontananza si vedeva il cielo schiarirsi lento e come ogni giorno, appena i miei neuroni assonnati riuscivano a connettersi, iniziavo a sfogliare la documentazione sulla mia adozione, o meglio un mucchio di fogli mescolati e riposti solo apparentemente con grazia in una cartellina lilla. Quella era una delle cose che facevo, ma che non servivano a nulla. Avevo letto e riletto quei documenti centinaia di volte, ma nulla poteva collegarmi alla mia famiglia biologica, eppure continuavo a passare in rassegna riga per riga quei fogli ogni giorno. Rimanevo poi a fissare per interminabili minuti l'unica fotografia che mi era stata scattata prima di essere lasciata in un orfanotrofio londinese ed ero sicura che fosse stata opera dei miei veri genitori, poiché quelli adottivi mi avevano confermato di non avermi mai fatto quello scatto, ma di averlo trovato tra i documenti per l'adozione. Anche quella fotografia però non mi dava grandi indizi. Ero nata da pochi giorni e avvolta in una coperta rosa e pelosa, dormivo beatamente in una carrozzina all'ombra di un grande albero dalle foglie verdi, nonostante fosse chiaro dal manto di neve candida che ricopriva l'erba, che fosse pieno inverno. Credevo fortemente che se solo fossi riuscita a trovare quel luogo avrei potuto scoprire qualcosa di più. Solitamente uscivo all'aria aperta a riflettere, ma appena sentivo qualche rumore giungere dal dormitorio, simbolo del risveglio delle altre ragazze, tornavo di corsa in camera, mi preparavo e scendevo a fare colazione. Il resto della giornata era quello di tutti, un susseguirsi di lezioni, fino a quando, mentre gli altri uscivano dal college esausti, io mi rinchiudevo nella biblioteca per sistemare la montagna di libri lasciati in disordine che ogni giorno sembrava aumentare sempre di più. La sera tornavo nel dormitorio, cenavo frettolosamente nella mensa comune e quando ancora non erano le 22:00, distrutta dalla pesante giornata, sprofondavo nel sonno pronta a risvegliarmi all'alba seguente.

Quando la sveglia suonò quella mattina, fuori il cielo era ancora buio pesto. Nonostante uscissi sempre alla stessa ora, il sole sorgeva ogni giorno più tardi, perciò quando mettevo piede fuori dal dormitorio, alzando lo sguardo potevo ancora scorgere il bagliore delle stelle. Quel giorno però, il cielo era completamente ricoperto da grossi nuvoloni che nel buio assumevano un colore violaceo.
Mi addentrai a passo svelto nel piccolo spazio verde che costeggiava il college, proprio a lato del dormitorio femminile e mi sedetti sulla stessa panchina di sempre, che avevo scelto come prediletta perché rimaneva più nascosta rispetto alle altre.
Un po' per l'ora, un po' perché quel parco non era mai tanto affollato, riuscivo a godermi la tranquillità e il silenzio di cui necessitavo, senza però sentirmi troppo sola poiché ogni mattina un signore dal sorriso dolce passava con il suo furgone a svuotare i bidoni, donandomi un allegro "buongiorno". Non avevamo mai iniziato una conversazione. Quando aprivo la cartellina per immergermi nella lettura, lui non mostrava alcun interesse nel voler sapere cosa ci facessi lì a quell'ora, così ognuno faceva ciò che doveva, poi prima di andare via ci salutavamo, consapevoli entrambi di vederci sempre lì il giorno seguente.

SOLI INSIEME / even after death there's HopeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora