3:59 a.m.

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Il led verde della sveglia sul comodino rischiarava appena la stanza, consentendomi di intravedere i contorni dell'ambiente intorno a me. Mi svegliai di soprassalto, col cuore che batteva all'impazzata e di scatto mi misi a sedere sul letto. Mi presi il viso tra le mani fissando i miei stessi piedi nudi sul gelido pavimento, i gomiti poggiati sulle ginocchia, i capelli sparsi in avanti a coprirmi il viso.

Respira Hailey, sei a casa tua nel tuo letto, va tutto bene.

I primi tempi questi risvegli erano una sgradita compagnia quotidiana. Ora non capitava più così spesso o almeno non in maniera così violenta. In fondo, era passata una vita da allora. Dieci lunghi anni.

Merda, quando sarebbe finita questa storia? Cominciavo a essere stanca di trascinarmi dietro ancora questa cosa.

Disturbo da stress Post traumatico. Questo aveva detto il dottor Ulric quando avevo iniziato con lui le mie sedute di psicoterapia. Questo era e, come mi aveva anticipato, poteva durare per sempre. Sarebbe migliorato, ma forse non me ne sarei mai del tutto liberata. Avrei imparato a conviverci. Ma ora, in questo momento, dovevo alzarmi. Mi sentivo un senso di oppressione nel petto ed era come se mi mancasse il respiro. Inoltre mi tremavano le mani e cercavo inutilmente di bloccarle tenendole salde tra loro.

Sgattaiolai fuori dal letto, facendo attenzione a non svegliarlo. Ogni volta mi stupivo di come sembrava riuscire a dormire nonostante i miei risvegli non proprio tranquilli. Lo guardai. Mi dava le spalle e i suoi capelli neri erano sparsi sul cuscino, il suo respiro era rimasto regolare, segno che non lo avevo disturbato.

Dovevo uscire da lì, avevo davvero bisogno di aria fresca. Recuperai la tuta passando accanto alla poltroncina ai piedi del letto e andai in bagno a cambiarmi. Evitai di incrociare il mio stesso sguardo nello specchio e tenni la luce spenta di proposito. Avrei visto le solite occhiaie che ormai facevano parte di me; le detestavo. Mi ricordavano le mie fragilità. Mi sarei truccata più tardi, prima di andare al lavoro, per evitare le solite domande dei colleghi. Erano domande premurose, per carità, ma pur sempre domande a cui non mi sentivo di rispondere senza sembrare patetica.

Legai i capelli in una coda, acchiappai gli auricolari e sulla soglia della porta d'ingresso infilai le scarpe e la giacca tecnica. Presi le chiavi e il telefono da sopra il tavolino, lo sbloccai e le inviai un messaggio.

"Solito posto, solita ora" seguito da un cuore, rigorosamente nero.
Lei sapeva già cosa volesse dire. Era il nostro modo di comunicare.

Lei più di tutti mi conosceva, sapeva tutto dei miei incubi e io dei suoi. Lei col suo sorriso e il suo ottimismo, lei era colei con cui avevo legato subito. Era la mia persona.

Mi arrivò un messaggio di risposta. Un cuore identico, segno che mi aveva compresa. Mi chiusi la porta alle spalle, accesi la musica e uscii a correre in quella fredda notte di febbraio.

Rallentai mentre passavo accanto al cancello della signora Töpfer qualche metro più avanti e lui era lì, come ogni volta, che mi aspettava. Sembrava che sapesse quando avevo gli incubi. Infilai la mano in tasca, presi un biscotto e glielo lanciai attraverso le sbarre.

Ormai conoscevo Cerberus da diverso tempo. Una volta lo avrebbe preso al volo, ma i suoi riflessi, seppur ancora scattante, non erano più quelli di una volta.

Erano già passati dieci anni da quella storia. Merda. Dieci fottuti anni. Ero arrivata lì in quella città e non me ne ero più andata, proprio come Alan. Ripresi a correre accelerando il passo e mi fermai senza fiato verso l'alba al solito posto. Andava sempre a finire così quando avevo gli incubi. Finiva che andavo da lui.

Passai una mano sulla fredda lapide, accarezzai le lettere incise sopra, mi sedetti per terra e mi accesi una sigaretta. Era bagnato, ma... al diavolo, non aveva nessuna importanza.

Il fumo della sigaretta salì verso l'alto, in una scia sinuosa. Non fumavo davvero, in realtà la fumavo al posto suo. Come se la fumasse lui. A volte si trattava di una sigaretta, a volte mangiavo dei cioccolatini, a volte leggevo delle notizie. A volte gli parlavo di lavoro. E a volte, ed erano le più numerose, gli parlavo di lui e di quanto mi mancasse.

In ogni caso, qualsiasi cosa gli avrei raccontato, non mi avrebbe di certo potuto giudicare. Lui era davvero l'ultimo che, comunque, avrebbe potuto farlo. Mi aveva sconvolto la vita e il minimo che potesse fare, anche se da morto, era sopportarmi sulla sua tomba.

Quante lacrime ho versato qui sopra in questi anni, quanta frustrazione, quanta rabbia. Mi mancava molto la sua presenza. Non avevo avuto la possibilità di incontrarlo di persona, ma mi mancava. Ci mancava.

Mi aveva tirato fuori dalla mia normale e banale vita tranquilla e mi ero ritrovata a vivere un vero incubo. Non solo io, anche tutti loro, specialmente lei. Se avessi potuto farlo tornare in vita anche solo dieci minuti, li avrei usati per dargli un pugno in faccia. Se lo meritava. Poi lo avrei abbracciato e stretto forte. Si meritava anche quello.

- Richy dannazione, mi verrà anche il cancro per colpa tua -. Spensi la sigaretta, mi alzai pulendomi le mani sporche di terra sui pantaloni e ripresi a correre verso casa.

I'm here (Italian Version)Donde viven las historias. Descúbrelo ahora