CAPITOLO 26

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OMAR (parte prima)

Fuori del Centro girai l'angolo del palazzo e mi appoggiai al muro dell'edificio per fumare una sigaretta.

Respirai profondamente quell'aria fresca prima di accenderla.

Non riuscivo a credere che i nostri incontri casuali fossero stati dettati solo dalla coincidenza, meditai.

Come poteva essere lei anche al Centro?

Era tutto illogico.

E comunque le avevo confessato più di quello che avrei voluto, ripensai.

Perché lo avevo fatto?

Lei non avrebbe mai capito niente di me, come avevano sempre fatto tutti.

Lei non avrebbe compreso quello che provavo. Che mi sentivo bloccato dentro una vita che non volevo. Una vita che avevo cercato di trattenere, ma che mi aveva portato a quei brutti giorni che vivevo costantemente, a quel cattivo stato mentale che si ripercuoteva sul mio agire.

Lei non era nessuno!

Non sapeva niente!

Non mi avrebbe aiutato!

Nessuno poteva farlo!

Le servivo solo per sentirsi meglio, per convincersi di essere stata utile a qualcuno e aver migliorato la società, come le avevo detto. Ma non glielo avrei permesso, non le avrei dato questa soddisfazione.

Ero arrabbiato, con me, con lei... con Dio!

Mi scoppiava la testa a furia di pensare. I pensieri premevamo sulle pareti rischiando di mandarle in mille pezzi.

Basta! Non ce la facevo più...

Eppure... se volevo essere sincero con me stesso, là in quell'angolo nascosto della mia anima, provavo quasi un sollievo. Mi sentivo più libero ora che le avevo parlato. Era come se per la prima volta riuscissi a respirare senza ordinarmi di farlo. Ero sempre riuscito a malapena a compierlo quel gesto fino ad allora. Avevo costantemente sentito il dolore dentro di me mentre si amplificava. Un dolore che lentamente si concentrava nel mio cuore e diventava un peso.

Quel peso mi stava portando giù. Giù fino in fondo... fino all'ultimo gradino... nel buio delle mie notti insonni, quando dormire era impossibile per me... quando non ero riuscito a decidere se volevo vivere o morire.

Dovevo trovare un modo per lasciarlo andare quel dolore. Bruciare, ma senza crollare.

Ma lei non avrebbe capito, mi dissi di nuovo. Non poteva aiutarmi.

Da fuori non si vedeva quante volte avevo pianto. Avevo pianto così tanto da odiare persino me stesso per averlo fatto. Il mio cuore aveva costruito un'armatura, ma quell'armatura col tempo si era consumata e quelle ferite non se n'erano andate. Quel tempo per loro non era bastato a curarle. Erano più profonde di quello che sembravano da fuori. Erano guarite solo in superficie, ma mi avevano cambiato dentro...

Non avevo trovato una ragione valida per uscirne. Era quello che mi mancava come aveva sostenuto Bianca. Non avevo alcuna ragione capace che mi spingesse almeno a voler provare a risollevarmi.

Come e dove avrei potuto riconoscerla?

Non avevo ancora intravisto quel faro che mi illuminasse la strada per tornare a casa... quella casa dove di nuovo sarei stato in pace con me stesso e ogni cosa sarebbe diventata quiete.

La mia era sempre stata una via solitaria, di abbandono, priva di speranza... ingarbugliata. Nessuno dopo mia madre si era più occupato di me. E nessuno sarebbe stato in grado di farlo. Io ero morto nel suo cuore, nel momento stesso in cui il suo aveva cessato di battere.

Ancora tu...Where stories live. Discover now