Capitolo 39

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(Canzone consigliata: Daylight - David Kushner).

Nerissa.

Il tempo stava crollando.

O, almeno, era quello che pensavo.

E non riuscivo a smettere di pensare a un passaggio preciso de "L'arte della Guerra", l'unico libro che mi era stato permesso leggere e lo stesso che mi aveva insegnato a non essere impulsiva.

L'impulsività molto spesso non porta a nulla, se non a generare altro caos.

"Il cielo comprende ying e yang, freddo e caldo, il susseguirsi delle stagioni.

Seguirlo o opporvisi determina la vittoria militare"

Io non stavo seguendo il cielo, né tantomeno mi stavo opponendo a lui. Non mi era permesso vederlo, non c'erano finestre e né un orologio che potesse indicarmi lo scorrere dei secondi.

Non sapevo da quanto tempo ero legata a quel muro di cemento, non sapevo da quanto quelle catene di ferro mi stessero ferendo i polsi e né da quanto le spalle si erano quasi atrofizzate per il dolore di quella posizione scomoda.

Non sapevo dov'ero.

E non sapevo se Ethan stesse bene.

Non avevo ancora nessuna risposta alle domande che mi erano sorte mentre cercavo di fare terra bruciata intorno a mio padre. Perché stava perdendo tutto? Un uomo come lui non avrebbe permesso che qualcuno toccasse le sue proprietà o la sua notorietà.

Non avrebbe mai permesso con tanta facilità e indifferenza che qualcuno facesse fuori la maggior parte delle persone sedute al suo tavolo.

E, a detta di Killian, il piano di uccidermi era stato ideato con il mio ritorno a Las Vegas. Da questo potevo dedurre che non mi trovavo in un cazzo di seminterrato, in cui perfino pisciare era un'impresa titanica, perché l'avevo fatto incazzare.

I conti non tornavano.

E le domande erano troppe.

Ero riuscita ad allentare un po' la presa sul muro. Quindi, ero anche riuscita a sedermi e poggiare la mia schiena stanca a quella parete fredda.

Mi facevano male le ossa, l'umidità mi stava mangiando i muscoli. Complice anche il fatto che stessi bevendo e mangiando lo stretto necessario per la sopravvivenza. E ad ogni sorso o boccone che avevo mandato giù, mentre Killian mi guardava come se fossi un miracolo, pensavo a tutti i svariati modi in cui avrei potuto farlo soffrire.

E tanto.

Volevo che supplicasse.

Non mi sarei fermata nemmeno in quel caso, ma la soddisfazione di vederlo inerme sarebbe stato un balsamo del tutto meritato per i miei occhi.

Mi sentivo sporca.

Avevo bisogno di una doccia e di un cazzo di spazzolino.

Stava usando qualsiasi metodo di nostra conoscenza per indurmi a cedere. Non mi stava torturando fisicamente, ma psicologicamente.

E, nonostante lo sapessi, mi sentivo davvero sull'orlo di una crisi d'identità.

Non sapevo nemmeno da quanto tempo non mi guardavo allo specchio. E la mia stanchezza non mi stava aiutando a rimanere lucida.

Ogni secondo che passava sentivo la mia mente crollare su sé stessa, troppo stanca per sopportare qualsiasi cosa. Ero arrivata a pensare che tutte le volte in cui sentivo i passi di Killian scendere da quella scala malandata, era sinonimo che non sarei stata sola con i miei pensieri.

Silence & NoiseWhere stories live. Discover now