Hai paura?

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<Allora, Amy, ricapitoliamo. Com’è composto un full?>
<Odio quando mi chiami così.>
Ethan sorride e mi da un colpetto sul naso.
<A me piace.>
<Non puoi chiamarmi Mandy come fanno tutti gli altri? Sei l’unico a chiamarmi Amy.>
<Proprio per questo mi piace, perché è solo mio.>
Sorrido timida, perché in realtà amo il fatto che abbia cercato un soprannome solo per me, uno diverso da quello che usano le altre persone. Questo lo rende speciale.
<Allora, il full?>
Mi sistemo sulla sedia, alzando le spalle. Prendo il mazzo di carte e inizio a cercare quelle che servono, poi le posiziono sul tavolo verde, in ordine.
<Tre carte dello stesso valore, cioè un tris.>
Dico, posizionando sul tavolo tre Q, ossia le donne. Ne prendo una di cuori, una di picche e un’altra di quadri, e le metto vicine.
<Più una coppia di pari valore.>
Concludo posizionando sul tavolo due dieci, uno di fiori e un altro di cuori.
Guardo la combinazione soddisfatta, incrociando le mani sul tavolo e sorridendo compiaciuta.
<Impari in fretta.>
Ethan mi guarda sorridendo, e allunga una mano sul tavolo, come se volesse accarezzare la mia, ma si ferma.
<Ho avuto un ottimo maestro.>
I nostri sguardi si trovano, e ogni volta che succede il mio mondo inizia a girare al contrario.
Del poker non mi è mai importato, in realtà, ho sempre pensato che fosse troppo complicato per me.
Ho sempre preferito passatempi di diverso genere, come leggere o guardare film. Mi piace molto anche disegnare, ma ormai non lo faccio quasi più, perché ogni volta che poggio la matita su un foglio finisco sempre per disegnare il suo bellissimo viso. Ormai, il poker è il mio passatempo preferito, solo perché mi permette di stargli vicino.
<La vita è come una lunga partita a poker, non trovi?>
Mi ero persa nei miei pensieri, come ogni volta che i suoi occhi sfiorano i miei. È come se mi prendesse per un braccio e mi spingesse dentro un vortice che non smette di girare. Io mi sento persa, però l’aria mi fa il solletico, e quindi io rido e rido. Alla fine mi piace entrare nel vortice.
<Cioè?>
Gli chiedo, imponendomi di uscire dal vortice.
<Pensaci, Amy. La vita è un gioco alla cieca, non sai mai quali carte ti capiteranno alla prossima mano, si tratta solo di fortuna. Proprio come il poker.>
<Ma tu dici sempre che nel poker si tratta di astuzia, non di fortuna.>
<Nel mio poker, si.>
Aggrotto le sopracciglia, e lo guardo incantata mentre si alza dalla sedia e si aggiusta le maniche della camicia bianca. Ethan indossa la camicia bianca solo quando deve giocare partite importanti, dice che è il suo portafortuna. Se oggi indossa la camicia bianca, significa che stasera giocherà tutta la notte, e poi non lo vedrò per un paio di giorni.
<Che cosa significa? Il poker non è uguale per tutti?>
Mi sorride e si ferma davanti la mia sedia, infilandosi le mani in tasca e guardandomi dall’alto.
<Lo è.>
Dice, prima di chinarsi a baciarmi una guancia.
Le sue labbra sono morbide e calde, e riscaldano la mia pelle ricoperta di lentiggini, così tanto che quasi mi sento bruciare.
Quando si allontana da me, resisto all’impulso di toccarmi con le dita la pelle che ha toccato lui con le labbra.
Lui mi guarda e sorride, come il più bello dei quadri, come quei sogni dai quali non vuoi svegliarti.
<Ma io non sono come tutti gli altri.>
Mi strizza un occhio e si allontana, mentre il mio cuore batte veloce.
<Voglio imparare anche il tuo poker, allora.>
Gli urlo, mentre lui cammina verso l’uscita.
<Forse un giorno,Amy.>




Mi sveglio di soprassalto, con la fronte imperlata di sudore, mentre fuori è ancora notte.
Il quadro della luna mi osserva, dal suo posto d’onore di fronte al letto.
Quando il serpente mi ha lasciata da sola, in questa stanza per niente familiare, mi sono concessa un bagno caldo. Poi mi sono distesa sul letto, e probabilmente il sonno mi ha inghiottita, mentre riflettevo sul casino successo nelle ultime ore.
Mi sento esausta, in effetti, ci sono troppe cose da elaborare.
I colori un po' si invertono quando il ricordo di Ethan viene a cercarmi nel sonno.
Da sveglia è più facile, non mi concedo mai di pensarlo, mai.
Ma di notte, quando il sonno mi cattura, è più difficile.
Dopo tutto questo tempo, mi domando per quale motivo il suo volto sia ancora il protagonista dei miei sogni. È come se fosse stato disegnato nella mia testa con un pennarello indelebile.
A me però non piace quando entra nei miei sogni, soprattutto perché poi, quando mi sveglio, tutto inizia a sembrarmi diverso da com’era prima che mi addormentassi.
Con un sospiro scendo dal letto e mi avvicino alla porta della camera.
La apro piano, cercando di non fare rumore, poi do un’occhiata al corridoio.
Cerco di captare dei possibili rumori, ma tutto tace nel castello del serpente.
Esco dalla stanza a piedi scalzi, e il pavimento di marmo mi pizzica sotto ai piedi, freddo come il ghiaccio. Ho indosso solo una lunga tshirt da uomo, l’unica cosa che ho trovato dentro uno dei cassetti del grande armadio che c’è in camera, ma almeno è abbastanza lunga da coprire la mia cicatrice.
Se davvero devo restare qui per un po', il serpente dovrà almeno concedermi di prendere qualche vestito al Saudade’s. Non posso mica vestirmi con le tende, in perfetto stile principessa nella torre.
Faccio fatica a ricordarmi la strada per tornare al piano di sotto, ma camminando in punta di piedi mi oriento come posso, e alla fine arrivo alle scale.
Scendo al piano inferiore, che è silenzioso come un cimitero.
Voglio solo prendere dell’acqua, poi me ne tornerò nella mia torre.
Arrivo al frigorifero a due ante, grande quasi quanto il mio armadio al Saudade’s, e lo apro tirando forte.
All’interno, ovviamente, così come il cuore del serpente, non c’è praticamente niente. A parte delle piccole bottiglie d’acqua riposte con ordine e accuratezza, in fila, perfettamente allineate.
Se non altro, l’acqua è il motivo per il quale mi trovo qui, perciò direi che mi è andata bene.
Prendo una bottiglia e richiudo il frigorifero.
Mi dirigo di nuovo verso le scale, mentre cerco di aprire il tappo, ma questa maledetta cosa sembra essere sigillata con della colla.
Mentre cammino e mi dimeno per aprire la stupida bottiglia, mi blocco di colpo.
Dalle vetrate la luce dalla città illumina la stanza, come se fuori fosse giorno. Non me ne sono per niente accorta quando ho sceso l’ultimo gradino delle scale, ero troppo concentrata a non fare rumore.
Mi avvicino alle vetrate, e resto così incantata che mi lascio cadere sul pavimento.
Incrocio le gambe, anche se il pavimento freddo mi brucia le cosce, e abbandono la bottiglietta accanto al mio ginocchio. Tanto non riesco ad aprirla.
C’è qualcosa di magnifico davanti a me, e improvvisamente la città nella quale vivo da tutta la mia vita mi sembra così diversa.
Forse perché tendiamo spesso a dare per scontate troppe cose, la città che sei abituata a vedere ogni giorno non cattura l’attenzione come una città che vedi per la prima volta. Forse per questo non apprezziamo mai il posto da cui veniamo, non come ci ritroviamo a fare quando visitiamo un posto nuovo.
Mi piace il posto da cui provengo, mi piace Las Vegas e non riesco ad immaginarmi da nessun’altra parte.
Ma io del mondo non so niente, queste sono le uniche mura che conosco.
A volte mi guardo intorno, guardo più lontano possibile, fin dove la mia vista riesce ad arrivare. E spesso mi chiedo cosa c’è oltre quell’orizzonte che non vedo?
C’è un posto, da qualche parte, che attende il mio arrivo?
Un posto a cui appartengo, e non perché ci sono nata, ma perché la mia anima fa parte di quelle terre.
Esiste un luogo in cui i sorrisi sarebbero più veri? Un posto in cui il cielo sembra più blu, e il mare circonda la costa, e profuma di sale e di libertà. Esiste un posto così?
<Che cosa fai?>
La voce del serpente mi fa sussultare, e quando mi giro di scatto lo ritrovo in piedi dietro di me. Indossa un pantalone della tuta grigio e una tshirt bianca, simile alla mia. Stavolta il serpente sulla sua clavicola si vede per intero, e sembra che mi sorrida. Vederlo vestito così provoca una sensazione strana dentro di me, e improvvisamente questo momento mi sembra troppo intimo, così tanto da sembrare sbagliato.
Però non ho più voglia di stare a chiedermi cosa è giusto e cosa no, per ora. Voglio solo concedere alla mia mente il riposo che mi sta chiedendo in maniera disperata.
Perciò non mi scompongo, non mi alzo, abbasso solo lo sguardo per assicurarmi che la tshirt continui a nascondere la cicatrice.
Poi, semplicemente torno a voltarmi verso le luci, e torno a cercare la pace.
<Non riesco a dormire.>
Dico, sorridendo al panorama.
<E tu?>
Lo sento muoversi dietro di me, poi il calore del suo corpo si fa vicino, finché lui non si siede al mio fianco.
<Neanche io.>
Non lo guardo, e so che neanche lui mi sta osservando.
<È davvero bello qui.>
Dico, mentre le luci sfavillano sotto di noi.
<Una torre con un bel panorama, se non altro.>
Sorrido, e lo faccio con il cuore. E anche il suo tono di voce cela un piccolo ghigno.
Poi il silenzio cala su di noi, ma io non mi sento per nulla fuori luogo.
A volte il silenzio è confortevole, soprattutto quando convivi con un frastuono perenne nella testa.
<Hai paura?>
Mi chiede, ad un certo punto.
<Per via di tutta questa storia, intendo.>
Una parte di me vorrebbe rispondere di si, ma spiegargli che non è per via di questa storia.
Vorrei poter dire che in realtà ho paura da tutta la vita, e che a volte vorrei che quella notte nessuno mi avesse salvata. Forse se quel coltello fosse andato più a fondo, o se avesse colpito un’altra parte del mio corpo. Forse la paura non mi accompagnerebbe, ora. Non potrebbe.
<Non so che cosa sta succedendo.>
Dico, con un filo di voce.
<Come posso averne paura?>
Mi giro giusto un po', il necessario per vederlo sorridere di mezzo lato.
<Forse è meglio così.>
Vorrei chiedere di più, vorrei pretendere delle risposte, perché le domande sono ancora troppe nella mia testa.
Ma non ora, mi dico. Meglio aspettare il sole, il mondo cambia quando il sole illumina le strade.
<E tu?>
Gli chiedo, osservando le stelle che si vedono a malapena, sopra le luci della città.
<Tu hai paura?>
<Si.>
Risponde di getto, alzandosi dal pavimento.
Non lo guardo mentre si allontana, non mi volto e neppure chiedo oltre.
Forse è tutta colpa della luna, forse anche lui di notte si sente più vulnerabile, forse con la luce del sole non avrebbe mai ammesso di essere spaventato.
<Ma non per me.>
Lo sento concludere alle mie spalle, e per istinto stavolta mi giro di scatto.
Ma lui è già sparito, come inghiottito dal buio di quei corridoi silenziosi.
Perciò io torno a guardare le luci.
Per chi, se non per lui, prova quella paura?
Forse il suo cuore non è di ghiaccio come penso, forse dietro la facciata del serpente velenoso c’è un giovane uomo che ha dovuto imparare a non tremare quando il buio lo circonda.
Forse ci sono tante cose che non so, e magari il vero cuore di ghiaccio qui è il mio.
In ogni caso, la mia testa è così affollata che mi sembra di impazzire, perciò meglio valutare ogni cosa quando ci sarà il sole.
Mi alzo dal pavimento, per tornare in camera.
Prima di andare mi ricordo del motivo per il quale sono scesa, l’acqua che non sono neppure riuscita a bere.
Mi piego sulle ginocchia per riprendere la bottiglia, così da rimetterla dove l’ho trovata, dato che non riesco ad aprirla.
Ma quando la prendo tra le mani noto che qualcosa è cambiato.
Il tappo è abbandonato per terra, di fianco alla bottiglietta.
Senza che me ne accorgessi il serpente deve averla aperta per me.
Anche questo, adesso, mi sembra un gesto troppo intimo.
Uno di quelli ai quali non sono abituata, e a cui non voglio abituarmi.
Perché a prescindere dalla piega che ha preso adesso questa situazione, c’è sempre un accordo basato sulla finzione tra di noi.
Prima o poi, tutto tornerà com’era prima.

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