Il sognatore

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Caro diario,
questa non posso non raccontartela! Eravamo a scuola, nella nostra umillima aula, ad ascoltare un discorso di poco conto sulle peripezie di Zeno Cosini, le sigarette, le scuse, le situazioni d'imbarazzo di uno sciocco, un inetto non lontano da me. Quel libro sembra una selezione di scene ritagliate dalla mia memoria, un collage di foto che sento di aver scattato io stesso. L'ho già letto, se non addirittura riscritto con la mia vita, e sentirne parlare ancora m'avviliva.

Diario, quante volte ti ho detto di averne combinata una alla Zeno? Avrai perso il conto, immagino. Dunque, provai a pensare ad altro, a distrarmi denunciando al mio sguardo qualcosa di estraneo alla mia somiglianza col più grande caso umano della letteratura.

E Anna apparve ai miei occhi.

Ignoravo la sua esistenza, faceva parte pure lei di quei pensieri che preferisco evitare. Aggiorno spesso quella lista. Stamattina vi ho aggiunto la cosa di Zeno.

Anna l'avevo inserita quando ci eravamo lasciati. Ricordi quel giorno? Fino a oggi, l'avevo rimosso, tramutato in un martedì qualunque; pioggia, scuola e il mio volto tra i libri, nulla di più.

Affiatati com'eravamo allora, fu uno scandalo. Le riviste scolastiche si domandarono cose che noi davamo per scontate. No, tranquillo, non nominerò il litigio da cui nacque tutto. Tra le tue pagine, se n'era discusso tanto, prima che me ne dimenticassi. Ne sarai stufo.

Oggi, ho passato l'intera lezione a guardarla, a pormi interrogativi su di lei.

- Quando ha cambiato taglio di capelli? Perché avrebbe dovuto farlo? Ha un telefono nuovo? -

Insomma, ho dormito con gli occhi aperti, fissi nei suoi. Ascoltava la spiegazione, forse curiosa di conoscere meglio il mio doppione. Se mi sentisse non sarebbe d'accordo. Prima di litigare, per lei ero tutt'altro, non il don Abbondio in cui m'incontro dentro lo specchio.
Anna aveva fiato solo per elogiarmi. Per lei ero studioso, bello, scaltro, atletico; di certo non il codardo di cui mi vanto, parlando con te.

Suonata la campanella, lei si alzò a riporre il quaderno, arricchito dagli appunti della mattinata. Volevo sorriderle, andare a disturbarla e domandarle come stesse.

- Vattene! - Mi avrebbe risposto.

Feci un passo nella sua direzione e la terra tremò. Le pareti ballavano, danzavano dandosi ai piaceri più sfrenati. Le sedie saltavano, euforiche. Tamburi e fanfare farfugliavano nel corridoio, balbettavano l'abbaiare del terremoto, tonante battaglia tra frastuoni in disaccordo. Il pavimento franava tra i miei piedi e mi sibilò addosso la litania delle sirene.

Viviamo in una regione sismica. Ti sei dimenticato di quando dovemmo cambiare casa? Dai, da noi era crollato il tetto. Te l'avrò descritto di certo, senza tralasciare dettagli. Avrai tutto tra un foglio e l'altro. 

Stamattina è stato peggio. Sono abituato a sentire le scosse solleticare le mura di scuola, ma mai mi sarei aspettato altro. La nostra vecchia villa vantava un'abbondante settantina d'anni a gravarle sulle spalle. Le ristrutturazioni erano servite a poco, se non a nulla. La scuola, invece, è un edificio pressoché nuovo, giovane.

Eppure, ecco che sulle pareti spuntavano rughe. Sottili linee sbocciavano ad aprire ampie crepe. La classe cadde nel panico, nelle grinfie di una paura sagace e spietata. Anna era sotto il banco, con le mani alla disperata ricerca di una risposta tra i suoi capelli. Mi vide. E invocò aiuto con gli occhi. Briciole e calcinacci piovevano dal soffitto, seppure tutto si fosse zittito. Dovevamo uscire, prima che un'ultima goccia scivolasse a far traboccare l'equilibrio precario dell'edificio. Ci sistemammo in fila indiana e sfociammo nel corridoio, ad accalcarci assieme alle altre classi, spaventate quanto potevamo esserlo noi. Nella confusione, camminavamo alla cieca, capendo poco di dove stessimo mettendo i piedi o di cosa   calpestassimo. Ed era facile, tra lo stridere delle voci, l'eco dei tamburi dei nostri passi pesanti sul legno, inciampare nella fretta di farfugliare un'altra nota per l'orchestra di terrori e tremori in cui ci  esibivamo. E Anna cadde, colpita dalla paranoia di restare indietro e cadere tra le mani del terremoto. Davanti a lei s'era aperto un baratro. Il tipo che la precedeva lo evitò senza sentire il bisogno di avvertirla e quando lei lo vide v'era già dentro. Mancò il suolo sotto il mio sguardo.  Si squarciava, nel ventre del corridoio, un largo buco. Scendeva di due piani, almeno fino al secondo; e noi eravamo al quarto. Anna non disse nulla, non a parole. Non le riuscì di pronunciarne una. L'aiuto me lo chiese con gli occhi, come pochi minuti prima.

In me vivono due uomini, il realista e il sognatore. Uno tiene il guinzaglio e l'altro tira, a volte gli sfugge. Se ci riesce, prende il sopravvento. E Zeno Cosini scende sul palco a recitare il mio ruolo.

Quando le tesi il braccio e la tentai di sollevare, il sognatore era al comando. Con sicumera, mi convinse che l'avevo salvata. Ero il suo cavaliere, un principe azzurro dai capelli biondi e la sfavillante armatura. Mi sono raffigurato lì come il protagonista di qualche romanzo d'azione ambientato tra i ruderi della società, nelle rovine sporche e grigie e lugubri di un condominio abbandonato, con una canotta a cingermi la muscolatura, steso a recuperare l'amata in pericolo, vestita con una di quelle tute stravaganti con cui conciano i personaggi. L'eroe omerico l'aveva riportata tra i vivi in fuga dalla morte. Lei non gli sorrise e gli spense le fantasie.

Eravamo fuori dall'edificio. E il mio sognatore si chiedeva cosa avesse sbagliato.

- Hai scrutato tra le nubi! - Rispose l'altro.

Mi ero detto che saremmo tornati assieme un momento dopo. Ma mi ero lasciato abbagliare dalle luci di un'immaginazione campata in aria.
Indovina? Era inagibile! Fortunatamente, ti avevo con me nello zaino, altrimenti saresti rimasto sepolto.

Ti sto scrivendo in attesa di sapere dove dormirò stanotte. Pochi minuti fa mi è arrivato un messaggio da Anna, sul cellulare, pieno di scuse. Non mi aveva neppure salutato, dopo la piccola tragedia. E mi pare pure naturale; sulla nostra relazione avevamo sparso il sale. Non doveva fiorire più nulla.
Allora, meglio così. Me lo ripeto, poco convinto. Tu non lo sai, ma ho appena sospirato, sospinto la mia attenzione su una memoria  meno deprimente.

Domani ti darò notizie, spero buone, sulla casa. Mia madre mormora cose brutte. La vedo preoccupata. In questo momento mi sta sgridando perché le sembro troppo tranquillo.
Devo lasciarti. A presto!

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