Verso la fine

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Velton si asciugò le lacrime un attimo prima che la porta si aprisse. Entrò Hannah, stringendo la piccola Chimera al petto. Anche quegli immensi occhi gialli apparvero un rimprovero rivolto a lui. Si girò verso la finestra, osservando il cielo incupito già da un pezzo. Hannah mise giù la gatta e le versò dell'acqua nella ciotola. Mentre quella beveva con la sua minuscola lingua, le accarezzò il soffice manto. Con la coda dell'occhio, Velton osservò la scena e si sentì geloso di quelle carezze. Avrebbe voluto essere lui il gatto destinato a riceverle.

"Sai cosa ho pensato di te, la prima volta che ti ho visto?".

Velton non rispose. Stava continuando a guardare fuori, una morsa che gli serrava il petto. "Che eri una specie di psicopatico", continuò a dirgli. Pescò un accendino dal cassetto della scrivania e accese una mezza candela già quasi consumata. La sua luce tremolante andò a mescolarsi a quella argentea della luna, dando l'impressione di una lotta tra bagliori. "Un tempo dicevano lo stesso di me, perché ero sola, senza amici e senza qualsivoglia sorriso. Non sorridevo mai. Pensavo di diventare brutta ogni volta che sorridevo. Ma in realtà erano le emozioni che provavo, perché nulla di ciò che avevo in me si adattava ad un sorriso. Un sorriso vuoto. È come bere da una tazza senza tè e sentirne il profumo. È questo che mi ha spinto ad innamorarmi di te. La tua diversità era identica alla mia. Sei un egoista, Velton. In qualche modo ti sei preso il mio cuore senza chiedermi il permesso".

Smise di fissare la candela e si voltò nella sua direzione. Lui parve immobile come sempre ma le sue spalle tremarono per un attimo e allora capì che per una volta si era abbandonato a sé stesso. "Io volevo solo guardare le stelle insieme a te, Hannah", le disse piano. "Per sempre".

Gli si avvicinò, stando attenta a non sfiorarlo. Sapeva che se l'avesse fatto, avrebbe perso ogni forza mentale e si sarebbe persa in lui ancora una volta. Eppure, mai come allora, sentiva il calore di quel corpo investire a pieno il suo. Guardò il cielo imbrunito a sua volta e sopra gli alberi neri vide una costellazione che non conosceva. "Mi dici cos'è?", gli chiese gentilmente.

Velton non la guardò ma annuì. "E' il triangolo di Primavera. Si può vedere per lo più solo nell'emisfero boreale. È formato da tre stelle. Arturo, Spica e Denebola". Le indicò le tre stelle e dopo un attimo Hannah riuscì a vedere chiaramente l'argenteo, immaginario triangolo tracciato nel cielo.

"Come fai a sapere tutto delle stelle?".

"E tu come fai a conoscere tutto di te stessa? E' più o meno lo stesso".

"No", Hannah guardò Spica con maggior interesse. "Io non conosco me stessa. E' molto diverso".

Finalmente Velton la guardò. Nei suoi occhi brillavano i sentimenti, quasi fossero una costellazione personale. Non sembrava più lo stesso. Nonostante il solito fascino, i soliti occhi blu, c'era qualcosa di malvagio in lui che lo consumava come la fiamma stava facendo alla candela. Era mai possibile che avesse scoperto qualcosa di tanto brutto da rovinargli l'esistenza? La sua vita infinita aveva trovato la voglia di morte? Sembrava che stesse pensando al peggio. Dopotutto, anche un sasso viene scheggiato da una pioggia troppo forte. Persino il ferro viene roso dalla ruggine prima o poi. Così appariva Velton. Per la prima volta stanco di vivere.

"Ascolta la tua coscienza. Interpreta le tue emozioni", la guardò negli occhi, quasi scavasse nei suoi pensieri, sciogliendone i nodi ma non la possibilità che si intrecciassero ancora. "Imparerai a conoscere te stessa".

La candela si consumò del tutto nel piattino. La cenere emise un odore acre e il fumo si allungò nell'aria come nebbia. Velton sciolse quello sguardo e uscì dalla camera, lasciandola sola con la sua solitudine. Non ricordò mai, in seguito, quanto tempo rimase in piedi dinanzi al Triangolo di Primavera, ferma e perplessa come la cerea espressione di una bambola in porcellana. Quando non scoppiò a piangere, capì che il suo corpo voleva lottare. Capì che non era più la ragazzina forte che racchiudeva una grande debolezza, nascondendola dietro una maschera. Capì che era forte davvero, che anche lei, come un sasso, si era ormai arresa alla pioggia. La sua anima era mutata in qualcos'altro. Non era più tranquilla e fiera di sé come il sasso prima che la pioggia lo colpisse. Basta lacrime. Bisognava reagire. Aprì la finestra e fu colpita da un leggero venticello primaverile. Era già saltata giù da quella finestra una volta ma allora c'era stato Shin a prenderla. Pensò al dolore che tutti, compresa sua madre, avevano provato e senza più lambiccarsi il cervello saltò giù. Atterrò sui piedi ma le caviglie le tremarono tanto da farle male. Non aveva ancora un piano né una vaga idea di che fare. Ma marciò sino al sentiero che portava a scuola. Vide le lontane costruzioni che erano la palestra, il supermercato e il vecchio parco giochi. Nel buio, una sagoma nera tagliava il cielo a metà: il campanile. Non c'era più nessuno a Hiyoshi, solo una decina di persone ormai. Chissà com'era diventato il resto del mondo. Quanto soffriva! Si ricordò le piantagioni di riso e fu guidata lì dal canto delle cicale. Si guardò intorno e riconobbe il punto in cui era tornata con Velton, dopo una capatina nello spazio. Vide la moto lì parcheggiata, splendente e in sua attesa. Bingo!

LapislazzuloWhere stories live. Discover now