Capitolo due-Aloe

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Kyle

Vidi la mamma entrare dalla porta. Aveva un'espressione spaventosa. Sembrava sul punto di accasciarsi a terra. Notai delle occhiaie scure sotto gli occhi. Il viso era smunto, smagrito rispetto a come lo era stato anni prima. "A come era stato quando papà era ancora vivo", pensai tristemente. I vestiti che indossava erano logori e sporchi di detersivo. Vidi le sue mani che una volta erano state così curate. Le unghie erano mordicchiate e la pelle sui palmi era ruvida. Mi alzai immediatamente dalla sedia della minuscola cucina. Mi avvicinai a lei e cercai di sorreggerla. Lei mi guardò con le lacrime agli occhi, come se non riuscisse a capacitarsi del fatto che fossi lì ad aiutarla. Sebbene cercassi di tenerla su con entrambe le braccia, non riuscivo a sorreggerla. Ero troppo debole.

-Mamma.- sussurrai appena, guardandola negli occhi. Notai con quanto sforzo cercasse di trattenere le lacrime.

-Mamma,-ripetei-vai a sederti in cucina. Posso badare io a Catherine. Ho anche imparato a cucinare. Non devi preoccuparti di niente.-

Senza dire una parola, mi prese per mano e la accompagnai in cucina. Le pareti basse e strette davano la sensazione di essere soffocati. Avevo sistemato tutti gli utensili e pulito ogni angolo. Desideravo solo che la mamma non avesse preoccupazioni.

La feci sedere sulla sedia e non smisi di tenerle la mano. Lei mi strinse a sé con forza, come se non volesse lasciarmi andare mai più. Nonostante sapesse bene quanto odiassi i gesti d'affetto, non smise di abbracciarmi. Non protestai. Quel giorno, come tutti quelli che sarebbero seguiti, era un'eccezione. Chiusi gli occhi e respirai il suo odore. L'odore dell'unica casa che conoscevo.

-Bambino mio.- sussurrò appena, interrotta da una lunga serie di singhiozzi disperati-Lo sai che la mamma ti ama, vero?-

Annuii leggermente, continuando a tenere gli occhi chiusi. Mi faceva troppo male vederla piangere. Era la mia mamma e non riuscivo a sopportare il pensiero che lei stesse male.

-E lo sai che papà è sempre con noi?-

Non risposi. Non me la sentivo di rispondere a quella domanda. Non potevo mentirle. Ero dell'idea che, se ci fosse stato davvero papà, non avrebbe mai permesso che la mamma soffrisse così tanto. Mi sciolsi dal suo abbraccio e mi misi in ginocchio davanti a lei. Appoggiai la testa nel suo grembo, come facevo sempre quando ero più piccolo. Lei mi accarezzò i capelli piano e mi lasciò un bacio sulla guancia.

La sentii piangere. Non osai alzare lo sguardo per guardarla. Sapevo come si sentiva. Da quando papà era morto, la nostra vita era cambiata radicalmente. Prima eravamo una normalissima famiglia americana. Avevamo abbastanza soldi per sostenere le spese giornaliere e saldare i nostri debiti. Mamma si occupava della casa e di Catherine, almeno finché ne ha avuto bisogno. Papà mi accompagnava a scuola tutte le mattine e poi andava a lavoro. Un lavoro particolare, lo ammetto. Non è da tutti specializzarsi in botanica e scienze della terra. Non è da tutti fare il ricercatore. Ma a me piaceva. Era affascinante vederlo indaffarato alla ricerca di nuove specie vegetali. Passava la maggior parte della sera chiuso nel suo studio al pian terreno. Mi divertivo a nascondermi ed osservarlo senza essere scoperto. Dopo moltissime ricerche intorno al suo studio, avevo finalmente trovato un minuscolo foro nel muro. Ed era così che avevo trascorso quasi tutte le sere della mia vita: avevo sbirciato il suo lavoro attraverso quel piccolo foro. La mamma credeva andassi a giocare con il nostro vicino. Ogni tanto andavo realmente a trovare Timmy, lo ammetto. Ma il 99% delle volte scendevo per le scale di casa, uscivo dal portico, mi giravo all'indietro, salutavo la mamma che mi osservava dalla finestra e mi incamminavo a casa del vicino. Peccato che appena notavo di non essere più osservato, cambiavo direzione e tornavo al mio luogo segreto fuori lo studio di papà. Con il tempo diventai più furbo. Siccome dopo mezz'ora di orologio in piedi sentivo le ginocchia cedermi dalla stanchezza, decisi di provvedere. Quando papà era ancora al lavoro, scendevo al mio nascondiglio e, con un paio di forbici, aprivo un nuovo foro alla base del muro, così che potessi continuare a spiarlo, ma seduto sul pavimento sempre pulito. Nessuno si accorse di nulla, tanto meno papà. Terminai il lavoro in due settimane. Non era facile riuscire a sgattaiolare di casa nei momenti migliori. La mamma sembrava accorgersi di tutti i miei movimenti. Eppure, non ha mai capito fin dove si spingesse la mia curiosità. E, per avvalorare la mia scusa di andare a trovare il vicino, decisi di fare un patto con Timmy. Se mia madre gli avesse chiesto qualcosa sulle mie frequenti visite, lui avrebbe risposto che passavamo insieme gli interi pomeriggi. In cambio, quel furfante di un ragazzino mi aveva chiesto tutte le caramelle e il cioccolato che possedevo. Seppi di aver fatto la scelta giusta quando mia madre decise di chiedere proprio a Timmy se ero stato da lui. Sospettava qualcosa, la mamma. Pensava andassi in giro con i teppistelli di quartiere. Quando mi accusava di certe bambinate, scoppiavo a ridere. Di certo, un bambino occhialuto e deboluccio come me non si sarebbe mai avventurato come facevano altri.

E poi papà partì. Ci disse di dover compiere delle ricerche in un luogo lontano. Promise che sarebbe tornato presto a casa. Diede un bacio alla guancia paffuta di Catherine e mi scompigliò i capelli. Non sapevo sarebbe stata l'ultima volta che l'avrei visto. Ero sicuro sarebbe tornato a casa. Ne ero convinto con tutte le mie forze. Lo vidi allontanarsi da me e mia sorella e percorrere il vialetto. La piccola valigia che portava in una mano e un cappello nell'altra. Si girò un'ultima volta verso di noi. Ci sorrise, mostrandoci denti bianchissimi, in contrasto con il buio della notte che stava sopraggiungendo. Appena la sua figura sparì dalla mia vista, mi ripromisi di sorvegliare il suo studio. Glielo dovevo.

Ogni giorno scendevo al mio nascondiglio e sorvegliavo. Controllavo che non ci fosse nessuno e che ogni cosa fosse al suo posto. Aspettavo il ritorno di papà seduto lì, dove ero sempre stato.

Ma non tornò mai più. Fu il signor Walker, collega di papà, a venire a casa nostra per darci la notizia. Appena lo vidi lì, sulla soglia di casa nostra, capii. Non avevo bisogno di pensarci su. Tappai le orecchie a Catherine quando sentii la mamma piangere per la prima volta. Avrei tanto voluto ci fosse stato qualcuno a tappare le orecchie anche a me. Non dimenticherò mai il dolore che sentivo attraverso le lacrime della mamma.

Il nostro castello di cristallo crollò e rimase solo polvere. La mamma dovette cercare un lavoro per mantenerci. Non sapeva come saldare i debiti che si andavano accumulando sempre di più. E lo studio di papà restava lì. Chiuso e sorvegliato da me. Mi decisi a forzare la serratura e ad entrare lì. Gli appunti sugli studi di papà erano sistemati in modo impeccabile sulla scrivania. "E' l'unica cosa che ti è rimasta di lui", mi ritrovai a pensare. Fu così che studiai tutti quegli appunti, uno per uno. Fu così che conobbi il linguaggio dei fiori che mio padre citava ovunque.

Il suo studio divenne il mio. Mi rintanavo lì dentro ogni sera e non smettevo di studiare e imparare tutto ciò che avevo osservato da quei fori per così tanto tempo.

Finii per esternarmi dal mondo circostante. Non parlavo quasi più con i miei amici e uscivo sempre meno spesso. Ero diventato taciturno e solitario. Per questo motivo, la mamma aveva racimolato un gruzzolo per mandarmi dalla psicologa.

Le lacrime della mamma mi caddero sul viso. Alzai lo sguardo, deciso a guardarla negli occhi. Sembrava più piccola di me, così sola ed indifesa.

-Va tutto bene, mamma.- mi affrettai ad asciugarle le lacrime-Vedrai che tutto tornerà al suo posto.-

E piansi con lei.


Aloe (pronuncia: àloe) è un genere di piante succulente della famiglia delle Aloeaceae (piante angiosperme). Nel linguaggio dei fiori indica la tristezza.

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