Capitolo quattro-Rose rosso-bianco

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-Andiamo a casa.- mi porse la mano delicata. Ero ancora seduta dietro la mia scrivania. Sospirai leggermente e le presi la mano. Mi tirai su e mi sgranchii le gambe.

-Hai proprio una brutta cera.- mi guardò accigliata. Sembrava seriamente preoccupata.

-Non preoccuparti, Catherine.- la rassicurai-Sto benissimo. Ho solo bisogno di un po' di riposo.- afferrai il mio cappotto e me lo infilai goffamente.

Lei mi lanciò uno dei suoi soliti sguardi sarcastici. Si avvicinò a me e mi sistemo per bene la sciarpa intorno al collo:-Sei proprio testarda, Jule May. Giuro che ti darei uno sberla quando fai così.- sbuffò seccata.

La conoscevo così bene ormai da sapere a cosa era dovuto il suo senso di protezione nei miei confronti. Credeva che fossi una specie di sorellina minore da accudire in ogni momento. Sarebbe dovuto essere il contrario, siccome ero poco più grande di lei. Ma era risaputo che tra le due Catherine era la più responsabile e saggia. Era sempre stato così. Se non ci fosse stata lei, sarei andata in tilt dopo pochi giorni.

Mi lasciai sistemare da lei. Era rilassante sentirsi amata e protetta da una delle persone che più contavano nella mia vita. La guardai. Non era cambiata minimamente da quel Venerdì in cui la incontrai. Stessi capelli biondi e corti, stessi occhi blu scuro e stessi tratti delicati. Sembrava ancora una ragazzina. Ma era assolutamente perfetta ai miei occhi. Solo io avevo notato la piccola cicatrice che aveva sotto il mento. Sapevo che se l'era procurata a sei anni quando, mentre cercava di imparare ad andare in bicicletta, cadde a terra rovinosamente. Solo io avevo notato la voglia a forma di stella che aveva sul polso. Mi aveva detto di avercela fin da quando era nata. O, almeno, fino a quando ne aveva memoria. Solo io avevo notato il dolore che nascondeva dietro quegli occhi blu. Non aveva mai accennato al motivo. Ci conoscevamo da tempo e mi chiedevo ancora perché non volesse parlarmi di ciò che era successo ancora prima che ci incontrassimo.

Eppure, se necessario, avrei aspettato anche per tutta la vita. Catherine era una donna responsabile e, se avesse voluto raccontarmi qualcosa, non avrebbe mai esitato.

-Adesso dovresti essere a posto.- mi sorrise leggermente e mi prese la borsa dalla scrivania.

-Che ore sono, Catherine? Il mio maledetto orologio si è fermato alle sette e trentasette.- sbuffai contrariata e lanciai un'occhiataccia all'oggetto malfunzionante al mio polso.

-Sono le nove, mia cara. E tu eri ancora chiusa qui dentro. Sei proprio un'irresponsabile, Jule. Quante volte devo dirti che puoi arrivare alla posizione amministrativa anche senza tutto questo lavoro extra?- entrammo nel piccolo ascensore. Pigiai il tasto per arrivare a piano terra. Sbuffai leggermente appena le porte si chiusero.

Come potevo contraddirla? Sapevo che lei aveva ragione. Tutti lo sapevano. Anche la mamma e il papà me lo ripetevano ogni sera. "Non ti devi sforzare troppo", dicevano, "sappiamo che hai le capacità per diventare una persona di successo". Ma io mi ostinavo a non dargli ascolto. Volevo essere premiata per il mio impegno. E alla svelta. Non avrei aspettato venti anni di carriera per diventare direttrice. No, assolutamente. Non potevo aspettare.

-Scusami, Catherine.- la guardai dall'altro lato dell'ascensore:-So che hai ragione.-

-Allora sarebbe meglio per tutti se iniziassi ad ascoltarmi.- disse in tono brusco e leggermente risentito. Mi dispiacqui per lei. Ero proprio una pessima migliore amica. Lei faceva di tutto per rendermi felice e farmi vivere a pieno la mia vita ed io la ricambiavo solo con pensieri irragionevoli ed azioni sconsiderate.

Prima che le porte dell'ascensore si aprissero, mi avvicinai a lei e l'abbracciai. Sapevo che Catherine adorava i gesti d'affetto, a differenza mia. Sentii il calore del suo corpo attraverso i vestiti e mi accorsi che stava sorridendo contro la mia spalla.

-Mi dispiace, Catherine. Lo sai che sono una vera e propria frana.- mormorai.

-Lascia stare, May. Non fa niente.- si sciolse dall'abbraccio e mi prese per mano. Sentii la mia bocca contrarsi in una smorfia. Era sempre colpa mia. Detestavo ferire Catherine. Mi sentivo così in colpa da sentirmi male finché non chiarivamo e non la riempivo di scuse. E sapevo che non sarebbero bastate tutte le scuse del mondo per farmi perdonare le mie menate di testa.

Uscimmo insieme dall'ascensore e dall'edificio. Fuori si gelava. Mi strinsi nel mio cappotto ed affondai la testa tra la stoffa calda.

-Natale è ormai vicino.- annunciò la mia migliore amica con un sorriso smagliante:-Non vedo l'ora di preparare il pranzo della Vigilia con la mamma.-

-Tua madre resta a casa quest'anno, vero? Non deve andare a lavorare come l'anno scorso, suppongo.-

-Per fortuna, da quando ho iniziato a lavorare stabilmente, non è più costretta a sostenere orari così improbabili a lavoro. E poi è da tanto che la mamma non si concede un Natale con i fiocchi.- disse le ultime parole con una punta di amarezza nella voce. Me ne accorsi immediatamente, ma evitai di fare domande. Nel corso della nostra amicizia, Catherine mi aveva detto della morte improvvisa di suo padre e nelle condizioni precarie in cui versava la sua famiglia da allora. Aveva rifiutato ogni possibile aiuto economico. Sua madre lavorava quasi tutti i giorni in una ditta di pulizie per hotel. Una sola volta, la mia migliore amica mi aveva accennato a suo fratello maggiore. Sapevo solo che era una figura di fondamentale importanza nella vita di Catherine. Ero curiosa di conoscerlo, certo. Eppure, in tutti quegli anni non ero mai riuscita ad incontrarlo. Ero andata a casa di Catherine solo due volte in sei anni. Mi rendevo conto che per la mia migliore amica non era facile mostrare le sue condizioni finanziare così apertamente. Perciò io avevo evitato in ogni modo di andare a casa sua. Una sola volta avevo incrociato la signora Kirk. Era una donna minuta e con i capelli neri striati di grigio. Mi aveva sorriso quando le avevo fatto un cenno di saluto con la mamma. Era un sorriso stanco e spento. Questo era successo due anni prima, quando ancora insistevo ad andare a trovare Catherine a casa sua.

Dopo qualche istante di silenzio, fu lei a parlare:-Senti, May, che ne dici se...che ne dici di venire a casa mia, stasera? Mi piacerebbe invitarti a cena. Volevo presentarti per bene la mamma. Magari, facendovi conoscere, potrei riuscire a convincerla ad invitarti per il pranzo di Natale.- mentre pronunciava quelle parole, non mi guardò negli occhi, Fissava l'asfalto deteriorato. Notai immediatamente un leggero rossore sulle guance che non attribuii al freddo di quella sera.

Non riuscii a trattenere un enorme sorriso:-Dici sul serio, Catherine? Non stai scherzando, vero?-

-Oh, no! Certo che no! Come potrei scherzare su una cosa così seria?- la vidi arrossire ancora di più:-Allora...vuoi venire a cena a casa mia, stasera?-

-Ma è ovvio che voglio!- quasi urlai. Catherine si girò verso di me con un'espressione scandalizzata. Mi intimò di fare silenzio e di contenermi. Ridacchiai leggermente.

Mentre ci avvicinavamo sempre di più a casa della mia migliore amica, scrissi un breve messaggio alla mamma per avvertirla che non sarei tornata a casa presto per una cena di lavoro. Per nostra fortuna, il tragitto in macchina che divideva l'ufficio da casa di Catherine non era troppo lungo. Parcheggiai nel vicoletto accanto e chiusi per bene la macchina. Di certo non si può descrivere precisamente l'espressione che si dipinse sul volto della mamma di Catherine quando mi vide entrare dalla porta d'ingresso. Le emozioni più evidenti erano lo stupore e l'agitazione. Mi chiesi perché la madre della mia migliore amica si dovesse preoccupare della mia presenza. Mi avvicinai lentamente a lei e le porsi la mano.

-Salve, signora Kirk. Mi chiamo Jule May Scott. E' un piacere per me fare la sua conoscenza.- sorrisi cordialmente.

Lei mi strinse la mano con la sua:-Ho sentito molto parlare di te, cara. Catherine non mi aveva avvertito che ci sarebbe stata un'ospite stasera. Credo non abbia avvisato nemmeno Kyle.-

La guardai confusa per qualche secondo:-Kyle sarebbe...?-riuscii a chiedere appena, prima che la mia domanda fosse bruscamente interrotta da una voca maschile.

-Sono io.- sentii dire alle mie spalle.


Rosa rosso-bianco, della famiglia delle Rosaceae(erbe, arbusti ed alberi). Nel linguaggio dei fiori indica l'unità.

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