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La mia valigia è pesante, troppo pesante. Mia mamma sosteneva che nel bagaglio a mano dovesse esserci solo l'essenziale, a quanto pare abbiamo idee diverse a riguardo ed è un bene, visto che le altre valigie sono andate perdute tra Savannah e New York.
Ma non ho tempo di lamentarmi, non ho tempo di fare niente se non continuare a camminare, stringendo il mio bagaglio in una mano e la custodia del violino nell'altra.
Devo ammetterlo, non pensavo che il mio debutto a New York sarebbe stato un tale disastro: non basta che le mie valigie siano disperse da qualche parte negli Stati Uniti, non basta che per raggiungere la sede principale della Juilliard abbia sbagliato strada ben due volte. No, non basta, perchè arrivata a destinazione ho scoperto che poteva andare peggio: gli alloggi sono pieni. A causa di un qualche errore amministrativo, la sottoscritta si ritrova a dover abitare, durante il suo primo anno di università, in un appartamento esterno al campus situato ad Hell's Kitchen. Leggermente inconveniente, visto che la Juilliard si trova in Lincoln Square e che sono almeno venti minuti che cammino ininterrottamente.
Quando finalmente vedo il numero civico indicato sui moduli che mi hanno fornito, troneggiare sul muro esterno del palazzo in cui sono stata cacciata, ritrovo il sorriso. Salgo gli scalini che conducono al portone, apro con le chiavi che mi sono state date ed infine entro nel palazzo. Scopro subito che, ovviamente, non c'è un ascensore. Cerco di non farmi prendere dallo sconforto e, continuando a stringere il manico della custodia del mio strumento, trascino il bagaglio a mano decisamente più pesante del dovuto su per le scale. Raggiunto il quarto piano tiro un sospiro di sollievo e mentre recupero fiato mi guardo intorno leggendo i numeri sulle porte grigio scuro dei quattro appartamenti presenti sul piano. Vedere il diciannove è rincuorante, persino infilare la chiave nella toppa e sentire la serratura scattare mi fa sentire meglio. Tuttavia, quando spalanco la porta aspettandomi di trovare altri studenti della Juilliard intenti ad accordare strumenti e studiare spartiti o solfeggi, rimango ben sorpresa nel vedere di fronte a me tre personaggi diversi rispetto a quelli che, durante il tragitto dalla sede principale all'appartamento, la mia fantasia aveva prodotto.

All'interno dell'open space, la prima persona che vedo è un ragazzo dai capelli scuri, gli occhi azzurri e i lineamenti dolci che incorniciano un'espressione apparentemente gentile. È seduto sul bancone della cucina, con un tubo di panna spray in mano e la bocca sporca del suo contenuto.
Subito i miei occhi si sposato verso la zona adibita a soggiorno dove una ragazza, l'unica, è stravaccata su una delle poltrone ingrigite in una posizione non proprio elegante, aggravata dal fatto che indossa dei pantaloncini inguinali. Ha i capelli corti e biondi, percorsi da ciocche viola e fucsia, un'aria decisamente intimidatoria che mi porta a provare un minimo di paura, mentre i suoi occhi sono fissi su di me intenti ad esaminarmi da capo a piedi.
Decido immediatamente di distogliere lo sguardo e di concentrarlo sull'ultima persona presente nell'appartamento: un altro ragazzo è sdraiato su un lungo divano color crema, con la chitarra in una mano, la t-shirt bianca stropicciata e dei jeans strappati che gli donano un look trasandato. Ha i capelli corvini, gli occhi ancora più scuri e profondi, la pelle leggermente abbronzata percorsa da una moltitudine di piccole lentiggini, il viso perfetto che presenta solo un accenno di barba. Mi ritrovo a pensare, sorpresa, che sia vagamente carino.
Poi mi rendo conto del silenzio assordante che ha regnato in questo posto da quando ne ho varcato la soglia, del fatto che come io non ho proferito parola neanche loro sono stati loquaci e si sono limitati a fissarmi incuriositi e, devo ammetterlo, ostili.

«Ciao!» esordisco, tentando di sorridere e richiudendomi la porta alle spalle. «Io sono Jasmine.» continuo. Stringo il manico della custodia del violino all'inverosimile: non sono abituato a dover essere una persona loquace ed espansiva, senza contare che nel loro silenzio non sono d'aiuto. « Lil. » aggiungo in un tentativo disperato ed imbarazzato. « È il mio primo anno alla Juilliard, ma gli alloggi sono pieni, quindi mi hanno dato questo indirizzo e le chiavi dell'appartamento, il che è ovvio, visto che sono entrata senza suonare o bussare. Spero di non essere sembrata maleducata.» concludo senza avere la minima idea di come continuare. Non c'è assolutamente niente che voglia dire alle tre persone di fronte a me, e se ne avessi la possibilità e non fossi esausta per il volo e la camminata chilometrica probabilmente scapperei, soprattutto visto che ancora una volta la loro risposta è il silenzio.
Il mio sorriso svanisce pian piano, fino a tramutarsi in una sorta di smorfia nervosa mentre comincio ad arrossire a dismisura.
« Penso che troverò da sola la mia camera. » farfuglio scoraggiata, tenendo gli occhi bassi.

Non appena recupero la valigia e mi avvio verso l'unico corridoio, che suppongo conduca alle camere da letto, avviene il miracolo: il ragazzo seduto sul bancone della cucina scende giù con un balzo e mi sorride.
«Sono Jordan. » si presenta tendendomi la mano. Per me è un invito sufficiente: la stringo sorridendo come non mai.

«Jasmine. »

«Lo so. » risponde facendomi l'occhiolino, divertito. « Quello con la chitarra è Daniel. » presenta il suo amico, il quale non si degna nemmeno di salutare o di guardare nella mia direzione: ha cominciato a pizzicare distrattamente le corde del suo strumento. «E quella vestita da prostituta è Peggy.» conclude.

«Mentre Jordan è talmente confuso sulla sua sessualità da dover giudicare quella degli altri.» ribatte Peggy, alzandosi dalla poltrona ed avanzando verso di noi. Mi osserva attentamente per quelle che sembrano ore, infine devia verso il corridoio e sparisce borbottando un "troia" del tutto udibile. Grandioso.

« Lasciala perdere. » mi rassicura Jordan con un'alzata di spalle «E' così tutto il giorno, tutti i giorni. Ci farai l'abitudine.».
Non so se il suo sia un tentativo di rassicurarmi, ma per qualche motivo non funziona. Jordan mi mostra la mia camera: è la prima del corridoio proprio di fronte al bagno che, scopro a malincuore, è in comune.
Nonostante sia ancora frastornata e soprattutto sconfortata, ringrazio Jordan con un sorriso prima di entrare nelle mia stanza. Non è molto luminosa, l'unica finestra presente dà sulla strada trafficata e sono sicura che sarà difficile dormire sogni tranquilli, con lo strombazzare dei clacson come sottofondo. Il letto è grande, occupa la maggior parte dello spazio, il materasso che vi è adagiato sopra sembra essere stato usato per anni ed avvolto nel cellophane per cercare di celare la verità. Sono felice che per mia mamma l'essenziale includesse anche un set di lenzuola pulite.
Storcendo il naso prendo a sistemare i miei pochi averi, avvalendomi della scrivania in legno chiaro posta di fronte al letto, l'unico altro mobile presente. A questo punto spero che le lezioni saranno talmente intense e impegnative, da impedirmi di rimanere in questo posto più tempo del dovuto.

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