16.

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Daniel

JFK è affollato più che mai: una buona parte di persone torna a casa dopo aver passato le vacanze a New York, ma la maggioranza torna a New York dopo aver trascorso il Natale a casa, esattamente come Jasmine.
La sto aspettando da almeno due ore, la schiena posata contro un muro e le braccia incrociate, riesco a malapena a contenere l'emozione.
Sono arrivato in aeroporto con un forte anticipo, ma non riuscivo più ad aspettare e, soprattutto, a reggere gli sguardi scettici di Peggy. Sostiene che io sia troppo coinvolto e che dovrei darmi una calmata; so che ha ragione, ma non posso darmi una calmata quando la ragazza che occupa i miei pensieri, da Settembre ormai, torna qui dopo due settimane in cui non l'ho vista.
Mi è mancata, mi è mancata più di quanto avrei immaginato nelle mie peggiori ipotesi. Sapevo che stare lontano da lei, a livello fisico, sarebbe stata una tortura, ma non ho messo in conto il fattore mentale. Mi è mancato sentire la sua risata, parlare con lei per ore, prenderla in giro quando entra nel panico perché un passaggio del brano che sta studiando non le riesce. Mi è mancata lei, mi è mancata Jasmine in tutto il suo essere.
Non voleva che la venissi a prendere all'aeroporto, nei messaggi che ci siamo scambiati nelle ultime settimane ha sostenuto che non fosse necessario. È necessario invece, persino auspicabile perché non voglio più aspettare per vederla.
In mezzo alla folla di persone spicca come se brillasse di luce propria, la sua figura attira subito la mia attenzione, ma quello che vedo mi porta a corrugare la fronte e a guardarla confuso. Jasmine è dimagrita parecchio, lo vedo benissimo dai suoi jeans stretti che ora le stanno larghi, lo noto anche dal suo polso scheletrico che fuoriesce dalla manica del cappotto mentre trascina il suo bagaglio; ho paura che possa spezzarsi da un momento all'altro. Quando mi concentro sul viso poi, le sue occhiaie profonde e le guance scavate mi lasciano di stucco.
Jasmine ci mette un po' a trovarmi in mezzo a tutta questa gente, ma quando lo fa rimane immobile, paralizzata con gli occhi fissi nei miei ed un'espressione spaventata in volto. Per un attimo temo che non stia neanche respirando.
Senza attendere oltre metto fine a questo stupido teatrino: mi avvicino a lei per stringerla in un forte abbraccio che sembra farla paralizzare ancora di più. Riesco bene ad ignorare le sue reazioni, in questo momento voglio solo godermi il suo profumo ed il suo corpo contro il mio. Non posso fare a meno di notare però, mentre la stringo tra le mie braccia, che sembra ancora più piccola ed indifesa del solito.
Allontanandomi di poco riesco a guardarla in viso: i suoi occhi blu si fondono nei miei e per un secondo, un solo istante, mi sembra di vedere delle lacrime che li accalcano. Stringo la presa ed avvicino la mia bocca alla sua, ma proprio quando sono ad un millimetro dalle sue labbra, lei scosta il viso di modo da porgermi la guancia sinistra.
« Mi dispiace.» la sento sussurrare con un fil di voce.

« Jas... »

« Possiamo andare a casa?» mi interrompe, continuando a guardare da tutt'altra parte.
Questa volta sono io a rimanere immobile, non ho idea di come comportarmi, non so cosa sia successo in Georgia, ma qualunque cosa sia non è positivo, né per Jasmine né tantomeno per noi. « Daniel?» mi chiama dopo qualche secondo. Noto che ha finalmente voltato il viso verso di me, quindi mando giù il sapore amaro che sento in bocca e mi avvicino per lasciarle un bacio sulla fronte: la sua pelle è ghiacciata.

« Andiamo a casa.» affermo lasciandole andare la vita e prendendola per mano, dopodiché sono io ad occuparmi del suo bagaglio. Sul taxi nessuno dei due parla: Jasmine è assorta nei suoi pensieri mentre guarda fuori dal finestrino del veicolo, io sono assorto nei miei pensieri mentre guardo lei.
Tento di capire cosa sia cambiato, cosa posso aver sbagliato, eppure non mi viene in mente niente a parte il fatto di averle chiesto di passare il Natale qui a New York con me e di averle detto che mi mancava. Forse Peggy aveva ragione, sono troppo coinvolto e l'ho spaventata.
D'improvviso la vedo rabbrividire, così, di punto in bianco. Senza doverci pensare elimino la distanza già minima che ci spara e le metto un braccio intorno alle spalle di modo da attirarla contro il mio petto, dove lei, con mia grande sorpresa, si rifugia. Il suo corpo è rigido, eppure la sento chiaramente abbandonare la testa e posare delicatamente una mano sui miei addominali. È come se la sua mente le dicesse di scappare, ma il suo corpo ordinasse di fare tutto il contrario.
Perso nelle mie riflessioni, a malapena mi accorgo del fatto che siamo arrivati ad Hell's Kitchen, davanti al nostro palazzo. Pigramente lascio andare Jasmine, pago la corsa, scendo e recupero il suo bagaglio. Sono pronto a prenderla per mano, ma lei mi supera camminando ad una velocità impressionante, non rallenta per salire le scale ed indugia poco di fronte alla porta chiusa. La apre con le mani che le tremano, dopodiché si fionda dentro all'appartamento. Io la seguo osservando ogni suo movimento, cercando di capire se si rende conto di sembrare leggermente disorientata, confusa e con la testa da tutt'altra parte.
La vedo dirigersi verso la sua camera e mi prendo qualche secondo prima di raggiungerla, quando lo faccio però, mi trovo davanti una scena che mi stringe il cuore: Jasmine è sdraiata sul suo letto, su un fianco, dà le spalle alla porta ma fronteggia la foto posta sul suo comodino, la foto di lei con quel ragazzo. Vedo qualcosa luccicare sulla sua guancia, ci metto poco ad accorgermi che si tratta di una lacrima.
Senza attendere oltre lascio andare il suo bagaglio nel bel mezzo del corridoio e la raggiungo sul letto, dove mi sdraio al suo fianco e le metto un braccio intorno alla vita di modo da far aderire la sua schiena al mio petto. La sento sussultare e allo stesso tempo respirare affannosamente, tuttavia non dice niente. « Jas, stai bene?» domando conoscendo già la risposta.

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