13. Un vaso di porcellana

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Quando Kether riprese conoscenza, il sole era alto nel cielo. Mosse le braccia e si rese conto di essere nel suo letto. Tiferet era seduta accanto a lei.

«Buongiorno. Bentornata». Sua sorella sorrise, posando in grembo il lavoro di ricamo che aveva quasi terminato.

«Cosa è successo?» chiese, stordita. Aveva una grande confusione nella testa. Ricordava solo di essersi svegliata nel cuore della notte e di essere entrata nella camera di Shuro, poi il vuoto.

«Shuro!» esclamò, mentre i ricordi riaffioravano. «Come sta? È..?» non riusciva a mettere in fila le parole, ma Tiferet la precedette.

«Shuro sta bene. Il medico non ha idea di come sia potuto accadere, ma non c'è più alcuna traccia della malattia». Lasciò che Kether assimilasse la notizia, poi proseguì. «Lo deve a te, non è vero? Ho scambiato due parole con lui ieri, e mi ha detto di aver sentito la tua presenza in un sogno. Ha detto che lo hai spronato a lottare, a non darsi per vinto. È solo grazie al tuo intervento che ora lui è vivo». Era un'affermazione, non una domanda. Kether non negò. «Non ho un'idea precisa di come sia potuto accadere... ho solo seguito il mio istinto. Ma, hai detto ieri...? Quanto tempo ho dormito?»

«Quasi dodici ore».

Così tanto?! La guarigione aveva prosciugato tutte le sue energie. E Tiferet era rimasta accanto a lei per tutto il tempo? Solo allora notò le ombre scure sotto gli occhi della sorella, segno che non dormiva da parecchio. Quando glielo chiese, ne ebbe la conferma. «Ti ringrazio per essermi rimasta vicina, ma ora anche tu hai bisogno di riposare. Vai pure, io sto bene» la rassicurò.

Tiferet annuì. «Va bene». Quando giunse davanti alla porta si voltò, colta da un pensiero improvviso. «Nostro padre vuole vederti. Mi ha chiesto di mandarti da lui quando ti fossi ripresa». Kether le assicurò che ci sarebbe andata prima possibile. Il suo stomaco brontolò, ricordandole che erano ventiquattro ore che non toccava cibo. Chiamò le serve e si fece portare un'abbondante colazione. Non appena si fu rifocillata, si preoccupò di rendersi presentabile, sottoponendosi di buon grado alla tortura dei cento colpi di spazzola mattutini, che resero i suoi capelli lucenti. Poi una delle cameriere si occupò di sistemarli in una elaborata acconciatura, mentre un'altra le portava un fine abito di seta blu scuro, con una leggera scollatura che le lasciava scoperte le spalle, e una morbida gonna che le ricadeva sui fianchi in un'infinità di minuscole pieghe. Lasciò persino che la truccassero leggermente. La sua pelle di pesca e le labbra rosate non avevano bisogno di alcun ritocco, ma era sicura che ci fosse un motivo ben preciso se suo padre insisteva per vederla subito, e voleva presentarsi al meglio. Quando ebbero finito di prepararla, quasi non riconobbe la propria immagine riflessa nello specchio. Il trucco e i capelli raccolti la facevano sembrare ben più grande dei suoi sedici anni, ma nel complesso quel cambiamento le piaceva. Scortata da due cameriere, che dopo gli ultimi eventi aveva insistito per scegliere personalmente, attraversò a testa alta il Salone delle Udienze, che a quell'ora del mattino era ingombro di postulanti, e si fermò davanti alla porta dello studio privato del padre. Non senza soddisfazione aveva notato gli sguardi invidiosi delle dame di corte e l'ammirazione degli uomini, che pure non si era mai preoccupata di cercare. Le voci circolavano in fretta a palazzo. Ormai era risaputo che non correva buon sangue tra lei e il Cancelliere, e il racconto della sua impresa del giorno prima era stato interpretato da molti come un punto a suo favore nella partita che si stava disputando. Le riverenze in molti casi erano state più profonde del solito.

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