Capitolo I

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Il piccolo uccellino si alzò in volo, sfuggendo alle prese delle candide mani della fanciulla.
Le stoffe di lino sfiorarono la strada di pietre e le campanelle tintinnarono.
L'aria era satura di odori maliziosi, mentre il sole di mezza mattina accarezzava avidamente i capelli castani stretti in una crocchia. I più bei gioielli del regno era intessuti con quei fili scuri, portati con aria regale dalla ragazza.
Le strade di Roma erano affollate, quella mattina, e i carri faticavano ad attraversare le strette vie della città. Inoltre, molte volte, se si faceva volare lo sguardo in alto, si poteva intravedere il bordo intagliato del Colosseo.
La domenica era sempre impegnativa e, giù nelle piazze, era solito vedere i commercianti esporre i loro prodotti: forse la fanciulla adorava le sete esportate dalla lontana Cina, o le pelli di leone direttamente arrivate dalla remota Africa, o addirittura dai talismani che le donne-streghe vendevano sui bordi delle più viscide strade sporche.
Roma non era una città pulita, se non all'interno, dove anche solo il più piccolo alito di sporco era allontanato a suon di stracci e acqua.
Questa città sarà mia, pensò la regale fanciulla, passandosi un dito sulle piene labbra che facevano impazzire tutti gli uomini. Quel gesto le ricordava il suo ruolo nella capitale del mondo, il ruolo che rivestiva da quando era nata.
«Càsto, non è una città bellissima?» Domandò a fior di labbra la fanciulla, e lo schiavo alle sue spalle irrigidì le grosse spalle scure.
«La trovo intricata di brutte cose, signorina» rispose lo schiavo, portando la mano al pugnale dentro alla custodia di pelle di antilope. La sua grande e scura figura spaventava facilmente il popolo romano, che come topi fuggivano alla sua vista.
La fanciulla sorrise. «Esattamente, Càsto, esattamente: intricata di brutte cose. Ma» si voltò lentamente verso il suo schiavo, portatrice del suo destino e mano della sua volontà.«A me piace districare i fili che intralciano il mio cammino. Nevvero, Càsto?»
Lo schiavo abbassò il capo.
La fanciulla sorrise e riportò i suoi occhi simili a diamanti sulle strade dinanzi a sé: le persone, in toghe e stoffe pregiate, si distinguevano per nobili in ritorno dallo spettacolo appena interrotto.
Le passavano davanti e sparivano dietro la sua vista come scarafaggi colorati, che lei poteva toccare con un dito, se voleva. Questo senso di potenza la fece ridere.
Lo schiavo restò immobile.
La fanciulla si girò, e le sue vesti tintinnarono assieme alle campanelle che aveva appese alle maniche del vestito bianco, com'era di tradizione nel suo Paese. «Andiamo. Mi sono stancata di stare in mezzo alla peblea,» disse facendo un mezzo sospiro.
Càsto fece un cenno del capo e cacciò da sotto il perizoma di color giallo slavato l'ascia a doppio taglio con le pietre appese. Aspettò che la sua signora si incamminasse con il suo passo sensuale e la seguì ubbidiente.
Al limite della via Giaguari, appena all'incrocio tra via Claudio e viale dei Porci, i mercatini spuntarono come funghi ai bordi delle strade, poco fuori dai marciapiedi di pietre grigie.
I commercianti e i poveri mercanti erano tutti indaffarati chi a spazzare i tappeti dell'India e chi a contrattare con i nobili signori che stringevano le bianche braccia alle loro signore. Altri, invece, urlavano a gran voce parole latine e dialetti strani per attirare come falene le persone che passavano di lì.
«Ti ho comprato in un mercato come questo, ricordi, Càsto?» Fece la fanciulla, continuando a camminare in avanti, mentre i suoi sandali di strini d'oro carezzavano la strada.
Lo schiavo non batté ciglio.
La fanciulla arricciò il naso. «Forse, però, era più pulito, come mercato. E molto più bello. Vero?»
Lo schiavo annuì con un cenno del capo. Allontanò con una finta d'ascia un piccolo ladruncolo, che fuggì imprecando.
«Ah, questi bambini. Che bestie sudicie!» Esclamò la fanciulla, negando col capo. «Bisognerebbe levargli questa tortura di vita dalle spalle, vero?»
«Ha perfettamente ragione, signorina» si limitò a rispondere lo schiavo, ubbidiente. «Non si allontani troppo,» le disse, guardando in cagnesco due uomini del basso ceto che adocchiavano in modo non nobile la fanciulla di sangue regale.
Mai nella loro vita avevano potuto vedere una simile creatura, tanto bella quanto l'ambizione annidiata nei suoi occhi di ghiaccio.
La fanciulla non li degnò di uno sguardo. «Questa gente mi annoia terribilmente. Andiamocene, in fretta: voglio vedere il tanto ardito e famoso Colosseo, che questo occidentali dicono sia migliore del nostro.»
«Ogni sua parola è legge,» disse lo schiavo, abbassando il capo.
La fanciulla sorrise. Il suo sorriso era come un serpente che si stringeva sui cuori degli sventurati; nessuno aveva il potere di scottarla, perché lei era il fuoco e il fuoco covava rabbia dentro di lei.
«La vendetta è dolce, se assaggiata calda,» disse più a sé stessa che ad altri: in più, solo il suo schiavo poteva udire la sua voce melodica. «Non pensi lo stesso, Càsto?»
«Certo, signorina.»
«Perfetto! Quanto amo andare d'accordo con te, Càsto» esclamò la fanciulla, lanciando un'occhiata a un tappeto di seta cinese su cui era intessuta la maestosa Grande Muraglia di cui la Cina andava tanto fiera. «Questo è il minimo che tu possa fare per ringraziarmi di averti comprato, quel giorno. Lo ricordi, Càsto?»
«Mai più bel giorno ho visto,» rispose lo schiavo, abbassando lo sguardo di pietra sul perizoma: sotto, niente pendeva, se non un laccio di cuoio laccato di argento che faceva da cintura del classico vestiario da schiavo.
La ragazza sorrise, schioccando la lingua.
Più avanti, la strada dava su un enorme spiazzo di erba verde occupato da delle grandi gabbie di metallo scuro. La gente si ammassava lì davanti, ammirando le due sagome che si muovevano inquiete al loro interno.
Molte voci urlavano di allontanarsi, una frusta frustava l'aria con uno schiocco profondo.
Una scarica attraversò le membra della fanciulla.
«Oh, ecco i leoni!» Esultò.
Si staccò dal suo schiavo e lasciò che i suoi piedi volassero sopra le rocce della strada, sopra i fili d'erba che si piegavano al suo passaggio. L'aria le sfilò dalla crocchia ben conciata alcune ciocche di capelli scuri, che le sfiorarono il viso come serpenti.
Al suo passaggio, anche le persone si piegavano: come soldati, si misero in linea e le lasciarono libera la via. Ogni persona, maschio o femmina che sia, si inchinava alla sua vista e i bambini venivano costretti della stessa cosa dalle madri.
La fanciulla sorrise.
«L'Imperatrice dei Balcani Teresia, settima del suo nome e quarantesima della dinestia Am-Agaton!» La accolse la forte voce di un funzionario romano, dall'alto di una delle gabbie.
Teresia alzò il mento e volse gli occhi, come se non le importasse delle persone intorno a lei, sui leoni dalle criniere bianche come l'argento balcano e lucenti come il sole nel suo paese.
Erano stati portati lì dalla sua terra, la sua adorata terra baciata dalla Luna, in suo onore. Uno dei leoni le ruggì contro, ma la fanciulla restò lì davanti senza battere ciglio.
«Morirai prima di poterlo rifare,» gli sussurrò, calma.
Quando si voltò, tutte le persone erano state mandate via. Càsto le stava dietro nella sua solita posa da schiavo, pronto a servirla.
«Maestà, l'Imperatore Cesare Augusto IX la attende» le disse.
La fanciulla lanciò un'occhiata al Colosseo, dove davanti all'entrata stava una figura seguita da altre persone: l'Imperatore dell'Impero Romano si faceva riconoscere dovunque e ovunque andasse. Fin da lì, Teresia sentì i suoi occhi su di lei, che avidi la stavano mangiando con gli occhi.
Strinse gli occhi e sospirò. «E allora andiamo dal mio futuro sposo, Càsto.»
Lo schiavo annuì. Si voltò e, ascia in mano, iniziò a camminare verso il Colosseo. Teresia lo seguì con passo leggero e regale in confronto a quello dello schiavo.
L'Imperatrice alzò la testa al cielo, assaporando il sapore del sole sulla sua pelle. Il cielo era azzurro, gli dèi favorevoli: Giove stava vivendo una buona giornata, mentre osservava dall'alto le persone su cui regnava.
Era piena estate, l'aria era calda e piacevolmente si poteva indossare stoffe leggere e tuniche più corte.
Teresia adorava l'estate, che poteva mascherare ogni cosa con un soffio di vento. Anche se, lì a Roma, l'estate portava con sé la puzza dei rifiuti, poco gradevole al suo fine olfatto.
Càsto si fermò dinanzi ai pretori romani. Li sovrastava sia in altezza che in muscolatura: ma Càsto veniva da una Colonia schiavista dell'Impero Turco in Africa, il paese degli schiavi più forti e famosi in tutto il mondo. Càsto, però, a differenza degli altri suoi vecchi compagni-di-vita —il nome che gli schiavisti davano alla loro merce— era stato fortunato. Molti erano diventati gladiatori e morti in posti come il grande e possente Colosseo.
La sua figura scheletrica, simile a un grosso insetto, sovrastava tutti i monumenti di Roma e toccava il cielo di Giove come un dito puntato contro gli dèi; un dito che però divertiva particolarmente quelle creature soprannaturali che avevano creato il Mondo.
«Teresia VII Am-Agaton» disse con voce profonda una voce.
La fanciulla levò pigramente gli occhi dalla costruzione più imponente del Mondo Conosciuto e li poggiò senza interesse sulla persona che aveva parlato: un uomo dai capelli neri come l'inchiostro, strigliati alla ben meglio per non farsi confondere per un grecus, le stava sorridendo, con una mano in avanti per porgergliela e l'altra sul petto coperta dalla lunga tunica bianca e rossa tipica dell'Imperatore.
Cesare Augusto IX si diceva fosse l'uomo più bello del Mondo Conosciuto e, secondo alcune chiacchiere, si raccontava fosse figlio della dèa Venere in persona.
Teresia non poté dire che fosse brutto: con quegli occhi scuri simili al castano dei tronchi degli alberi e quel sorriso beffardo tipico dei giovani, l'appena ventiduenne Imperatore aveva un portamento regale e grandioso. Una corona di foglie di alloro gli cingeva la testa, mentre i suoi capelli si arricciavano alle sue estremità.
La fanciulla posò la sua mano candida su quella abbronzata dell'Imperatore, rivolgendogli uno dei suoi migliori sorrisi.
L'Imperatore fece un mezzo sorriso e chinò il capo. «Mia promessa, allora è vero quello che si dice sulla tua bellezza, che non ha mai fine e tenta tutti gli uomini,» le disse.
«È uno solo l'uomo che la mia bellezza tenta, Cesare» rispose maliziosamente Teresia, guardandolo dall'alto in basso con i suoi occhi azzurro ghiaccio.
«È un tale piacere averla qui a Roma, Maestà!» Li interruppe un pretore romano, che poteva avere sui sessant'anni: Teresia lo squadrò con un sorriso di fredda sopportazione.
Il suo scopo non poteva venire intralciato da persone di quel rango.
Appena sarebbe diventata Imperatrice dell'Impero Romano, oltre che a quello dei Balcani, avrebbe concentrato tutto il potere nelle sue sole mani.
Si immaginava già con il pomo d'oro tra le mani, mentre dal suo seggio scrutava tutto il suo immenso mondo.
«Il piacere è mio nell'essere stata invitata nella città più bella del mondo» rispose Teresia pazientemente, parlando con i suoi toni da palazzo: la sua voce, secondo molti suoi adoratori, era "Come il canto di una dèa proibita agli uomini perché perfetta".
«Vieni, Teresia, lo spettacolo sta per ricominciare» disse l'Imperatore, prendendola sotto braccio con modi calmi: il suo sorriso splendeva come il sole nel cielo. «Sono sicuro che tu non te lo voglia perdere per nulla al mondo.»
Teresia sorrise e si fece guidare dal suo promesso sposo.

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