Introduzione, la fine é il principio

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THE DAYS WE DIED
storie di droga, derelitti e preservativi


A tutti coloro che non avevano soldi per la dose
ma ai bar mi offrivano Coca-Cola lo stesso.





PARTE PRIMA
Kurt Cobain, 5 aprile 1994

La notizia arrivò il pomeriggio stesso. Di bocca in bocca le parole saettavano da un palazzo all'altro, come acqua torrenziale scrosciavano per le strade cadendo sui tombini cariche dei sussurri del cemento, arrivando nelle fogne, e dalle fogne sfociavano in laghi e oceani e dai laghi e gli oceani ritornavano all'origine, e fuoriuscivano dai rubinetti e dalle docce per bagnare i corpi sfiatati e depressi della gioventù dimenticata dal mondo.

Io stavo facendo sesso con Audrey sotto la doccia quando, come un'improvvisa illuminazione resasi portatrice della Sacra Parola, l'acqua sembró divenire insopportabilmente calda e la porta del bagno sbattè al muro con una forza dinamica e impetuosa. Luke se ne stava lì davanti a noi, con lo sguardo sconcertato arrancando per respirare. Con quella fronte imperlata di sudore pareva essere uscito pure lui dalla doccia, di tutta fretta, vestendosi per strada e fremendo con ogni fibra del suo corpo fisico ed etereo per giungere a questo momento; Audrey che tira a se' la tenda ammuffita della doccia per coprisi le tette, io che fisso il mio amico con la pelle che brucia in attesa che dica qualcosa prima di girare la manopola dell'acqua per raffreddarla, ed evitarci così un'ustione di primo grado.

«È morto» aveva detto lui. Tutto qui. Ci aveva guardati, neanche a rendersi conto che eravamo entrambi nudi e volevamo che se ne andasse al più presto per continuare a scopare, perché Luke certe cose non le ha mai capite al volo. Solo che, dopo quelle due semplici parole pronunciate con una tale foga da farci sobbalzare, il biondo spasmodico s'era messo seduto sulla tavoletta del cesso prendendosi la testa fra le mani. E allora m'era toccato chiedere «Chi è morto?» senza neanche sorprendermi troppo, perché di persone che potevano morire da un momento all'altro ne conoscevo a bizzeffe e mi ero già psicologicamente preparato alla morte di ognuna di loro. Calum l'eroinomane, Elizabeth con la sua arma da fuoco, Michael lo schizoide e un sacco di altre persone sarebbero potute essere quel «È morto», e Luke continuava a guardare me e Audrey come se avessimo dovuto capire al volo di chi stesse parlando.

«Kurt. Kurt Cobain. Morto, crepato, fottuto!»
E allora eccoci a correre come forsennati per strada, io e Audrey con i capelli ancora gocciolanti e le urla di disperazione a far tremare i palazzi. Chiamammo tutti i membri della congrega a rapporto, bazzicavamo le strade radunando i tossici e i punk, gli spiritualisti e gli alchimisti, i metallari e gli indie; accendemmo un faló all'incrocio tra la Harding e la Park street piangendo un Dio che ci aveva lasciati per riunirsi agli altri Dei. Un Dio emaciato, spossato e spiritato, ma che era riuscito a lasciarci il Seme della Parola Proibita prima di ritirarsi dal palco.
Quindi noi ce ne stavamo tutti lì, quelli del gruppo e i passanti che si fermavano a chiedersi perché tutti questi ragazzi logorroici e incazzati d'un tratto parevano morti, con le teste chine sugli anfibi e le Converse rovinate, canticchiando canzoni dei Nirvana con le lacrime nella voce senza avere più tutta quella voglia di attaccar briga.
Il fuoco sembrava non scaldare più come prima, il cielo pareva solo una schifosa distesa di china che s'era portata via un amico, un guru, un filosofo e un padre. Eravamo figli illegittimi di Kurt Cobain, vomitati fuori dal suo cazzo per il solo tentativo di restituire la speranza all'era moderna. Un'enorme rete di fratelli e sorelle con le fascette in testa e le borchie, i gilet a frange e i tatuaggi, le creste e i rasta; anche se i nostri cuori vibravano a ritmi di musica differenti, quel giorno i punk piansero con gli hippie le stesse lacrime. Figli di Kurt Cobain, vomitati dall'era del bronzo, rotolati giu' su rocce e cactus prima di affiorare in un campo di girasoli e sbocciare cantando "In Bloom" con una chitarra scordata.
La sera calava senza che nessuno di noi dicesse nulla, stavamo seduti a terra con lo sguardo al cielo o le mani in grembo, a parlare con tutti e con nessuno, a scambiarci messaggi telepatici in un finto silenzio che ci faceva sentire così terribilmente in trappola. Gli hippie presero il fumo, i punk gli acidi, gli indie l'alcol, gli skaters le sigarette e a me, che non era mai fregato un cazzo di borchie e frangette, toccava strimpellare la chitarra perché presto tutti iniziarono ad urlare e piangersi addosso. Calum si legò il laccio emostatico sul bicipite, si iniettó una dose davanti a tutti, come se non gli fregasse più nulla. Chiuse le palpebre violacee e sorrise al cielo. Luke scriveva canzoni strappando pezzi di carta dal suo quadernino e condividendoli con gli artisti e gli scrittori, che disegnarono e scrissero poesie di collera e frustrazione discutendo di Bukowski e Boudelaire, di semafori rossi e mostre d'arte. Se ne stavano a disegnare simboli sulla pelle degli alchimisti che avevano preso ad ondeggiare baciando chiunque si parasse loro davanti. Elizabeth mostrava la sua fidata M11 ai ragazzini che la guardavano come un arrapato spastico guarda una modella sul nuovo numero di PlayBoy; gli occhi carichi di adorazione e un'erezione nascosta nei pantaloni.

Le età più disparate, i colori più disparati, i profumi più disparati si erano riuniti all'Uno per celebrare la scomparsa di una leggenda. Come piccoli tasselli di un puzzle ci eravamo ritrovati, quel 5 aprile del 1994, e con pazienza e dedizione ci eravamo intersecati gli uni con gli altri. Non esistevano confini, barriere, gusti o stili diversi dal Qui e Ora, stavamo vivendo il Grande Attimo di caos tra la morte di una stella e la sua definitiva scomparsa. Lo riuscivi a palpare con mano, un momento del genere. I bastardi più disparati del multiverso s'erano riuniti sotto lo stesso cielo quella sera. Dentro di noi, sapevamo tutti che Kurt Cobain era morto per questo.

«Cosa udite dal profondo della vostra psiche» Michael si alzó in piedi sull'erba, lui che era un punk rocker, ma pure un alchimista, un indie, un artista e ogni tanto pure un hippie. Saltava da uno stato di coscienza ad un altro senza farsi troppi problemi, e mentre aveva allargato le braccia tutti ci chiedevamo quale parte di lui stesse parlando in quel momento, e quale altra parte avrebbe parlato fra cinque minuti. «Svegliatevi. Udite la corruzione. Vi sentite tristi? Persi? Soli? State soffrendo di Schiavismo verso voi stessi. Liberatevi dal dolore, cominciate a studiarlo per studiarvi. Kurt se solo ci vedesse con queste facce, in questo Momento, ci prenderebbe a pugni in faccia. Ribellatevi! Gioite! Riprendete le vostre vite ringraziandolo per il suo sacrificio; oggi una stella è diventata leggenda per mostrare ad altre come diventare tali. Uccidetevi e poi avrete il vostro agognato libero arbitrio. Sterrate la vostra strada, scavate la vostra tomba.»

E quindi avevamo preso a urlare, a dimenarci, persino i topi da biblioteca avevano alzato gli sguardi dai loro libri e s'erano messi a correre per strada. La Rivoluzione, la sentivamo nelle viscere. I giovani degli '90 lasciati a marcire come cani randagi abbandonati sull'asfalto di periferia. Sentivamo la Vita scorrerci nelle vene e arrivare al cervello, collegarsi alle sinapsi, esplodere in un fragore di fuochi d'artificio e urla da stadio. Correvamo per strada, senza paura di farci investire, senza paura di ciò che sarebbe venuto dopo; alcuni li perdemmo per strada, alcuni erano persi in partenza. Lunghe file di adolescenti accaniti ed esultanti tamburellavano le mani sui cruscotti delle auto, battevano i piedi a terra, si strappavano le vesti della società di dosso permettendosi di fare ciò che avevano desiderato fare per una vita intera.

Quella notte accendemmo candele e incensi, ascoltammo musica classica e leggemmo poesie di Allen Ginsberg a gran voce, in equilibrio chimico sulle panchine dei marciapiedi. Contemplavamo il jazz in uno stato subatomico della materia, le radio annunciavano la scomparsa di un leader qualunque di una band qualunque, ma per noi era stato come una supernova. Ci sentivamo persone nuove, avevamo lasciato andare il Vecchio lasciando spazio al Nuovo. Il nostro salto quantico era avvenuto.

Quella stessa notte gli alchimisti si coricarono con un sorriso, i metallari si tolsero le corna e gli indie avevano finalmente trovato qualcosa in cui credere.

𝐓𝐇𝐄 𝐃𝐀𝐘𝐒 𝐖𝐄 𝐃𝐈𝐄𝐃Unde poveștirile trăiesc. Descoperă acum