Prologo, il principio

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L' ho conosciuta in un pomeriggio di luglio.
L' aria calda, stagnante, con il sudore attaccato alla pelle come un peccato capitale; ci torturava le budella costringendoci a perdere i sensi sotto quel sole cocente di piena estate, con le strade desolate e i parchi brillanti e di fuoco. Sotto gli alberi dalle fronde verde smeraldo, i junkies e i punk rocker riparati sotto quelle poche ombre bestemmiavano il sole e il cielo e l'erba secca e l'intera città.
A Indianapolis faceva un caldo del cazzo, quell'estate. Roba del genere non si vedeva dal 1936. Erano passati cinquantasei anni da allora, e mia nonna prima che uscissi da casa sua, quella mattina, se ne stava appollaiata alla finestra a ricordare tempi che non le sembrava nemmeno di aver vissuto.

Io camminavo lungo il marciapiede, sotto il sole incandescente che mi bruciava le spalle e assiccava i capelli, guardavo le punte delle Converse mentre sorpassavo buche e lattine, pensando a nulla di preciso. Ero di ritorno da casa di mia nonna, l'avevo aiutata a tagliare il prato ed ora avevo trenta dollari nella tasca dei jeans e una voglia matta di una bella bibita fredda, gelata, che potesse ghiacciarmi le interiora facendomi sputare condense di vapore gelido come la neve.
Fu a quel punto che la vidi. Pensando all'acqua gelida che avrei voluto acquistare al bar più vicino, ecco che le urla di una ragazza mi si paravano davanti come un fulmine a ciel sereno.

I lunghi dread attorcigliati, lo sguardo spaventato, gli occhi gonfi di lacrime. Era spuntata da un vicolo e agitava entrambe le mani con insistenza, quasi volesse farmi capire cosa le stava succedendo con quel gesto soltanto. Il mio cuore sobbalzó; sia per lo spavento, dalla sua comparsa improvvisa a mezzo metro da me, sia perché pure con quell'espressione terrorizzata mi pareva la ragazza più bella che io avessi mai visto. Eccola lì, davanti a me, la mia Salvatrice e la mia Rovina, ad agitare le mani e dire «Aiuto! Ti prego devi aiutarmi», prima di afferrarmi il polso con una mano tremante e trascinarmi nel vicolo.
C'era puzza di umido e di bruciato, di erba e spazzatura. Le crepe dei due palazzi che ci circondavano sembravano in procinto di inghiottirci entrambi. Poi, quando mi lasciò il polso, dietro a un cassone della spazzatura vidi un ragazzo. Vent'anni al massimo, pelle olivastra, tratti mezzi orientali e un ciuffo ossigenato in mezzo ai capelli scuri. Gli occhi al rovescio.
Lei s'accucciò al suo fianco, una mano davanti all bocca e l'altra che scansava una siringa, lanciandola lontano come se non volesse farmela notare. Ma l'avevo notata.

«Ti prego aiutami, è collassato. Ti prego!» Urlava tipo se mi trovassi a chilometri e chilometri da lei, come quando durante un litigio si alza la voce per sovrastare quella dell'altro; non c'era nessun'altra voce, in quel momento, ma ho ipotizzato che nella sua testa ci fosse un gran casino dal modo in cui si muoveva. Non sapeva dove mettere le mani. E, a dir la verità, neanche io.
Non ero pratico di roba del genere, l'ultima volta che avevo aiutato qualcuno era stato quando la mia sorellina era caduta dalle scale del palazzo e si era sbucciata un ginocchio: acqua ossigenata, cerotto e via.
Ma adesso, che mi trovavo il volto esangue di un tizio in overdose, supponevo che un cerotto non sarebbe servito a niente. Quindi mi adoperai affinchè il mio cervello riuscisse a connettere e improvvisare qualche mossa di primo soccorso. Di quelle che ti insegnano a scuola, niente di troppo eclatante.
Dissi a lei di correre a chiamare un' ambulanza alla prima cabina telefonica mentre tenevo alzata la testa del ragazzo con un sacco dell' immondizia, la fronte grondante di sudore.

«Ma non ho soldi» disse lei. Allora pescai un paio di spiccioli racimolati dal salvadanaio di mia sorella la sera prima e glieli misi tra le mani tremanti. La vidi correre a perdifiato oltre la strada, poi alzai le gambe del tipo per far andare sangue al cervello; il suo volto cominciava a perdere colore e, nonostante fremessi dall'agitazione, riuscii a sganciargli un paio di schiaffi ben assestati per riuscire a farlo rinvenire.

D'un tratto mi misi a guardarlo e pensai "quindi, ecco com'è un tossico". Il laccio emostatico ancora legato al braccio, la pelle nell'incavo del gomito costernata di piccoli lividi violacei e, a terra, una pallina di carta stagnola, un cucchiaio e un accendino. Ci rimasi secco, perché non avevo mai visto un drogato in vita mia. Diciott'anni di vita e la droga era sempre stata per me come qualcosa che esisteva e basta, il resto non mi avrebbe toccato minimamente. Neanche mi ci interessavo; erano i famigerati anni '90 e, quando tutti i tredicenni si facevano il loro primo cartone di LSD, io me ne stavo tranquillo a ignorare il mondo con la solita faccia placida di qualcuno che si accontentava.

𝐓𝐇𝐄 𝐃𝐀𝐘𝐒 𝐖𝐄 𝐃𝐈𝐄𝐃Where stories live. Discover now