3, Salsa di Soia

930 105 19
                                    

«Merda!» l'istante tra la costatazione della medesima parola e l'urlo stridulo emanato dalle corde vocali di Michael erano stati abbastanza voraci da spingermi a strattonare un'ultima volta il coprimozzo della Mercedes, che per miracolo divino s'era staccato di colpo, poco prima che il proprietario iniziasse a correrci dietro urlandoci contro un arsenale di parolacce che facevano invidia a quelle che vociava Calum quando si beccava un bel fuorivena. E Calum era il miglio imprecatore che avessi mai conosciuto.
In ogni caso, mi servivano soldi per la dose e la Mercedes era capitata davanti a me come un'apparizione di quelle che si leggono nella Bibbia, quando d'un tratto si ha la visione sparata in faccia e si sa esattamente ciò che bisogna fare. E quindi io li avevo fregati, quei coprimozzi, con la speranza di poterci fare anche venti dollari se mostrati al giusto acquirente, qualcuno talmente idiota da avere venti dollari da spendere per dei fottuti coprimozzi del cavolo.
In ogni caso, ora c'eravamo io e Michael che correvamo come gazzelle sorpassando strade e cercando di non farci investire alla bell'e meglio, con i clacson che ci risuonavano dietro come trombette da stadio ad accompagnare i cori di insulti dei conducenti. Avevamo continuato a correre per circa mezzo chilometro, non perché il tizio ci stesse ancora dietro –aveva lasciato perdere da un pezzo— ma perché a Michael correre piaceva da matti e io volevo riprovare a farlo dopo mesi, ignorando di essere diventato ormai un eroinomane con i fiocchi e che fossi in astinenza; volevo riprovare la sensazione del vento schiaffato in faccia e l'adrenalina nelle vene. Alla fine quella stessa adrenalina mi aveva portato a vomitare all'incrocio di Taco Bell, davanti alle scarpe di una signora bassa e rugosa che ci aveva pensato bene a riservarmi quell'occhiataccia, perché si vedeva che le mettevo paura. Ma alla fine si era solo dileguata e Michael s'era messo a ridere. Lui si metteva sempre a ridere per tutto.

«Sai che dovremmo fare?» aveva detto. Tra una risata e l'altra era riuscito a riprendere fiato e ciancicare la gomma prima di continuare: «Dovremmo proprio andare in Michigan».
«Michigan?» mi ero ripulito la bocca con il lembo della maglia e ora lo stavo guardando con uno sguardo strano, pensando che fosse un gran pazzo da legare ma che, allo stesso tempo, una passeggiata in Michigan era proprio quello che mi ci voleva. Respirare aria nuova, provare la coca dell'Est, rubare una Cadillac. Cose del genere.

«Sì. Conosco un tipo di lì, l'ho aiutato ad esportare un po' di roba durante uno dei miei viaggi. Saprà trovarci un lavoro, un lavoro vero, guadagneremo soldi veri e poi ci compreremo una villa con un cane e tutto il resto. Cazzo, certo che lo faremo!» Il Lupo cominciava a diventare fuori di testa quando si metteva a studiare il futuro, come uno di quelle indovine che ti pescano per strada e cominciano a progettare tutta la tua vita solo leggendoti il fottuto palmo della mano. Che poi ci sarebbero voluti anni per comprare una villa. Michael questo mica lo avrebbe mai capito. E in più io avrei arraffato tutti i risparmi per imbottirmi di LSD prima di poter permetterci dei vestiti nuovi, questo lo sapeva pure lui.

«Vorrei poter avere la tua stessa intraprendenza», gli avevo detto. La sua mano schiaffata sulla schiena mi fece perdere l'equilibrio per un secondo, e poi eccolo lì a cingermi le spalle e camminare per il marciapiede, raccontandomi di milioni e trilioni di progetti futuri inventati al momento, che sapeva pure lui di non poter mai riuscire a raggiungere; complici la sua profonda capacità di stufarsi in un nonnulla e il sangue nelle sue vene che sembrava circolare solo se il suo corpo veniva sballottato da una parte all'altra d'America. Quindi, insomma, cercava solo di convincermi promettendo cascate di ketamina e fiumi di DMT.

Alla meno peggio, avrei avuto qualcosa da raccontare quando saremmo ritornati a Indianapolis –che tanto già sapevo del Michigan non ci avremmo fatto granchè —.

«Quindi? È deciso?» eravamo arrivati alla Tana quando me lo aveva chiesto, sempre ancorato alle mie spalle nel tentativo di stufarmi così tanto dall'essere costretto ad annuire e partire con lui. Nell'appartamento diroccato c'era la solita gente: l'Angelo, che s'era messo a scrivere una canzone sul muro con uno di quei pennarelli che un attimo prima funzionano, e l'attimo dopo uno li lancia da una parte all'altra cercando di farli rinvenire. Le mura del monolocale erano piene di scritte soprattutto grazie a lui, che le cose se le dimenticava subito e allora doveva scriversele da qualche parte. Poi c'era Audrey, che giocava con il suo nuovo serpente domestico, fregato dal baracchino di animali alle fiere. Teneva un topolino morto con due dita e lo ciondolava davanti agli occhi della bestiaccia, attendendo che lo addentasse.
«È disgustoso» Calum invece stava sciogliendo l'eroina con lo sguardo puntato sul topo morto. Lui aveva la fobia dei serpenti e, da quando Audrey glielo aveva infilato nelle scarpe per fargli uno scherzo, quei due non si erano più parlati da una settimana a quella parte. Calum era permaloso quando si trattava di serpenti.

𝐓𝐇𝐄 𝐃𝐀𝐘𝐒 𝐖𝐄 𝐃𝐈𝐄𝐃Where stories live. Discover now