【 nineteen 】

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Di norma Frank non ricordava i suoi sogni. Gli era capitato poche volte, da bambino, ma con la crescita quella capacità era diminuita fino a scomparire. In realtà gli piaceva anche come fenomeno, svegliarsi con la sensazione di avere nella mente un foglio bianco pulito, liscio, al posto di quello tutto scarabocchiato e stropicciato del giorno precedente. Eppure, quando quella mattina si accorse di essere cosciente, completamente accasciato sul materasso con le coperte scomodamente aggrovigliate attorno al corpo in una falsa imitazione di una camicia di forza, il primo pensiero al quale andò la sua mente fu un evento di tanti anni prima, che come un traslucido fantasma in controluce sempre stato lì lo costrinse a guardarlo in faccia.
Era una pesante sera d'estate, il cielo terso e trapunto di stelle brillava di un caldo blu, ed i suoi genitori lo avevano portato in città. Erano andati a vedere uno spettacolo di teatro, come ogni tanto facevano quando suo papà aveva una deroga dal lavoro, e quella notte veniva rappresentata la commedia di Shakespeare Molto Rumore Per Nulla in un teatro all'aperto. Frank si ricordava un piccolo lui con la maglietta dei supereroi ed i capelli scuri che gli finivano in faccia seduto sull'erba soffice tra sua madre e suo padre, con i pugni ben affondati nella terra umida. Lo spettacolo gli era piaciuto molto in primis perché sua madre gli aveva comperato un frullato di frutta, ma aveva soprattutto apprezzato le battute divertenti tra due personaggi che poi avevano finito per sposarsi. Frank però aveva impressa nella mente una scena particolare, ossia il matrimonio tra i due protagonisti. All'epoca era ancora un bambino, la sua sensibilità era diversa, più spontanea, così come la sua maturità poco messa alla prova dai problemi del mondo, ma con le presenze protettive dei suoi genitori ai suoi fianchi era rimasto a guardare la calunnia di un'innocente. Infatti, nello spettacolo, la sera prima del matrimonio della protagonista con il ragazzo che amava, una persona cattiva aveva fatto credere al suo ragazzo che lei lo stesse tradendo, così lui la aveva abbandonata e ripudiata sull'altare, chiamandola davanti a tutti una puttana adultera per poi andarsene senza neanche guardarla in faccia. Lei era svenuta per il dolore e intanto tutti se n'erano andati via, solo le persone a lei più strette le erano rimasti accanto cercando di svegliarla, convinti che fosse morta. Però era viva, distrutta ma viva. Quando si era ripresa ormai si era diffusa la voce della sua morte all'interno del nucleo familiare più stretto, così il celebrante, dopo essersi fatto raccontare la vicenda, aveva suggerito di non smentire la voce, e di farla credere morta. Sapeva infatti che una volta scomparsa la sua immagine da viva, sarebbero risaltate le sue virtù e la verità sarebbe saltata a galla. Non si era sbagliato, quando il sipario si era chiuso in scena era appena stato celebrato un doppio matrimonio. Ma Frank ricordò sempre quella piccola morale, ossia che bisogna sempre apprezzare qualcosa mente la si possiede, anche se piena di difetti. Una volta che ci sarà sfuggita dalle mani, le sue mancanze saranno colmate dal dolore di un amore ormai destinato a morire.
Frank non sapeva dire se quella scena la avesse sognata davvero oppure la avesse ricordata in dormiveglia, anche se sospettava fosse più probabile la seconda opzione. Non era neanche sicuro di aver davvero dormito, ricordava solo un buio stato di confusionaria semi-incoscienza in cui il tempo scorreva diversamente. Forse era solo stato sveglio tutta la notte, sospeso nel limbo tra sonno e veglia. In fondo non sognava mai, ed erano infime le possibilità che proprio quella notte avesse rievocato nei sogni un ricordo così doloroso, date le circostanze. Si sentiva tutto accartocciato, sfinito, come appunto un foglio bianco appallottolato e gettato in un angolo a prendere polvere. Con un movimento che gli causò uno sforzo enorme spostò la testa ed affondò il viso nel cuscino, lasciando che tutta la stanchezza gravasse in quel peso. La federa era fresca, umida in alcuni punti, come una morbida garza posata sul suo viso bollente, segnato dalle lacrime, quasi ci fosse qualcosa disposto a confortarlo, facendogli una carezza leggera. C'era, ma non riusciva a pensarci in quel momento. Si sentiva gli occhi stanchi e pesanti, gonfi di lacrime, non voleva neanche aprirli o alzarsi dal letto per valutare le sue condizioni fisiche. Non era sicuro di essere completamente intero, si sentiva come se gli avessero asportato tutto dal corpo, lasciando solo il cuore a battere nel vuoto un ritmo lento, inesorabile, che sapeva di nostalgia. Con un mugolio affondò di più la faccia nel cuscino, sentendo i capelli appiccicati al volto dalle lacrime secche sfregargli fastidiosamente le guance. Non aveva le energie di spostarli, sentiva tutti gli arti abbandonati sul letto come se non gli appartenessero, collegati solo da un sottile filo bianco al resto del corpo. Non ne aveva le forze, era completamente distrutto. Con un sospiro cercò di rotolare sul letto, poggiandosi su un fianco, ma il tentativo fallì miseramente e si ritrovò spostato di pochi centimetri sulle lenzuola tutte sfatte. Con l'ennesimo sforzo piegò le braccia, avviluppate tra le coperte, e si pigiò le mani sugli occhi. Si sentiva vuoto. Non quel vuoto leggero che accompagnava una sensazione di felicità, donandoti la stessa consistenza del vento, che ti fa sentire libero e capace di qualsiasi cosa. No, quella era una sensazione di vuoto che gravava su di lui con tutto il doloroso peso della sua consapevolezza. In quel momento la consapevolezza, caricata ogni secondo prima, esplose pacatamente nella sua mente confusa, ricordandogli il motivo di tanta distruzione. Papà è scomparso. Anche il suo cuore in un certo senso smise di battere. Saperlo era una cosa, rendere suo quel sentimento prendendone coscienza era tutt'altra questione. Chissà, forse aveva veramente sognato ed ora era ancora incastrato tra i soffici lembi di quell'incubo, candidi di lenzuola pulite. Una cornacchia stridette fastidiosamente fuori dalla finestra, e Frank con un gemito premette di più le mani sulla faccia, facendo pressione sugli occhi in un vano tentativo di alleviare la sensazione di gonfiore. Non era un incubo, era la realtà, era veramente successo tutto ciò. Lo ricordava, ricordava i passi dei due ufficiali fuori dalla porta e lo scattare della porta come una silenziosa deflagrazione, lo sguardo perso di sua madre e la linea dura della bocca, ma delle ore che seguivano aveva solo ricordi frammentari ed aggrovigliati. C'era il vuoto tra quei frammenti, il vuoto che occupava deliberatamente il suo petto in quel momento, bagnato da tante di quelle lacrime che ne aveva perso il conto. Un frammento di un ragazzo che correva su per le scale, una porta sbattuta, un cuscino contro la faccia. Un buio che calava di fuori, i libri lasciati intonsi sulla scrivania. Era tutto un video ad alta velocità, non sapeva quando fosse avvenuto un determinato attimo. Era tutto così confuso, immerso nella nebbia, cercava di ragionare con i pensieri immersi nell'acqua che alterava le sue capacità di ragionamento, era estenuante. Ma ricordava le lacrime, quelle sì. Ecco spiegato il perché del sapore amaro in bocca, delle labbra secche e degli occhi gonfi contro le sue dita. Ora che ci pensava, sentiva anche un dolore roco alla gola. Frank sospirò e fece scivolare le braccia ai lati del corpo, decidendosi ad aprire gli occhi. La luce lo stordì un attimo, costringendolo a sbattere le palpebre gonfie un paio di volte prima di arrendersi e tenere gli occhi aperti in una fessura. Era colpa del cielo carico di nuvole di fuori, un'unica, compatta lastra di marmo che rifletteva i pochi raggi proprio in camera sua. Gli faceva male, così si mise di nuovo le mani davanti alla faccia, sorprendendosi di se stesso quando sentì i suoi occhi inumidirsi, gesto che glieli fece stringere ancora di più. Non poteva piangere, non di nuovo, sebbene la camera stagna nel suo torace sembrava stesse per esplodere. Prese un profondo respiro e mise tutto a tacere. Si sforzò di respirare con la bocca, lentamente, reprimendo la brutta sensazione triste e rabbiosa che stava montando in lui come un'onda. Quando si sentì abbastanza in forze per farlo, si decise a sfregarsi le mani contro gli occhi e ad aprirli, fissando il soffitto bianco della sua camera con una lieve sensazione di disgusto. Non per il soffitto, beninteso, ma quanto per la situazione in generale. Sapeva benissimo che quel disperso era un modo carino per annunciargli un'altra cosa, per dirgli che... morto, Frank, si disse da solo. Tuo padre è praticamente morto. Non serviva parafrasare le cose, sarebbe stato inutile. Preferiva che gli si dicessero in faccia, ed ora lui si stava dicendo in faccia che suo padre era con ogni probabilità morto.
E non riusciva a sopportarlo, era una cosa logorante. Stava lentamente sfilando tutti i fili dalla trama da uno scampolo di tessuto, li voleva togliere tutti fin quando non sarebbe rimasto nulla se non un mucchietto di fili inutili. Poco alla volta lo stava distruggendo. Non riusciva davvero a sopportarlo, non dopo il barlume di pochi giorni prima di speranza, in cui sarebbe solo dovuto passare del tempo per rivederlo. Ora non c'era più neanche quella torcia, era stata spenda dopo essersi consumata invano. E tutte le belle parole dove sono finite? Frank sapeva che la lettera giaceva da qualche parte nel cassetto del suo comodino, ma non aveva la minima voglia di rileggerla e dare una martellata ad un parabrezza già ridotto ad una ragnatela di vetro. Le belle parole c'erano, ma sarebbero rimaste per sempre là sospese nel buio, né concrete né astratte, una manciata di piume che galleggiano sulla superficie di un mare mortalmente calmo. Le belle parole lo avevano ingannato, ora suo padre era chissà dove, con ogni probabilità morto, e lui si stava distruggendo. Non riusciva a sopportarlo, era completamente impotente con la situazione, non aveva neanche la voglia di fare qualcosa. Anche se avesse voluto cosa avrebbe potuto fare? Nulla, assolutamente nulla. Aveva la sensazione di essere uno di quei ciottoli abbandonati sul letto di un fiume freddo e torbido che graffia e modella le pietre fino ad arrotondarle, le morde con i suoi brividi e dona loro una nuova forma, sono completamente in balia della corrente, non possono scegliere. Non riemergeranno. Le loro grida scoppieranno come bolle d'aria arrivate alla superficie, confonderanno il loro dolore con le piume disperatamente bianche. Ecco come si sentiva. Abbandonato inerme su un fondale grigio, a subire l'azione erosiva delle circostanze che mano a mano trascinava con sé la sua voglia di vivere. Non aveva davvero voglia di fare nulla. Neanche di andare a scuola, ma non che normalmente saltasse di gioia a tale prospettiva. Valutò l'opzione di restare a casa, almeno per un giorno. Ma poi sarebbe rimasto solo a farsi dilaniare dal dolore, allora tanto meglio cambiare ambiente e fuggire dalla sua casetta di bambola che in pochi mesi era diventata una casetta dismessa e diroccata, dimora dei fantasmi. Con un gesto secco allontanò le coperte dal suo corpo e si alzò, strascicando lentamente i suoi passi fino al bagno. Sentiva di inciampare continuamente, aveva paura che sarebbe stramazzato al suolo, privo di forze, ancora prima di poter raggiungere il corridoio. In una qualche maniera, avanzando a tentoni tra l'oscurità del corridoio e la viscosità dei pensieri, riuscì a raggiungere fisicamente incolume la porta del bagno e la aprì con uno scricchiolio, fermandosi poi davanti allo specchio, poggiato sopra il lavandino, accendendone le luci.
Frank pensò che se sul dizionario si fosse messa una foto per ogni definizione data, accanto alla parola stravolto sarebbe stata stampata la sua faccia. I capelli scarmigliati e disordinati gli ricadevano scompostamente sulla faccia, oscurando in parte gli occhi lucidi e semichiusi, privi di espressione. La carnagione era persino più pallida del solito, esangue, le occhiaie ed il gonfiore delle palpebre risaltavano come se fossero stati ricalcati, le labbra secche e rosse erano socchiuse nella smorfia di chi vuole dire qualcosa ma ha dimenticato le parole. La posa mesta delle spalle non faceva che dare al suo aspetto sconvolto un'aria da poeta maledetto. Il ragazzo sospirò, deglutendo nervosamente, i suoi occhi si abbassarono lentamente sul lavabo, lo aprì con un gesto cauto e si sciacquò la faccia, indugiando a lungo con l'acqua fredda sulla pelle bollente, poi rialzò gli occhi stanchi nel suo riflesso. Almeno aveva un po' meno l'aria di qualcuno che come hobby si fa tirare manrovesci dagli sconosciuti. Dava meno l'aria di un cadavere risvegliato dalla bara. Quell'involontario pensiero lo fece sentire un attimo male.
Non pensarci, Frank. Si sciacquò ancora la faccia con l'acqua fredda e rimase a guardare il suo riflesso, illuminato dal lampo accecante delle lampadine. Bevve un sorso d'acqua nel tentativo di idratarsi le labbra secche, come di carta vetrata, di un color ciliegia pallido. Le sentiva scabrose e chiuse, eppure quando si passò un dito sopra si accorse che erano lisce e morbide al tatto. Effettivamente, da quando era stato da Gerard le sue labbra non erano più screpolate. Poco dopo, il sangue tornò a macchiare quella piccola tela rossa.
Non pensarci, Frank. Barcollò fuori dal bagno e tornò in camera, come unico rumore i suoi passi poco attenti. Sì vestì, non facendo neanche caso a cosa avesse preso tra le mani. Gli bastava fosse caldo, che lo nascondesse a quel mondo un po' troppo appuntito. Quando si accorse di star indossando, di nuovo, la felpa di Gerard, affondò il viso nel morbido colletto, cercando un barlume di tranquillità nel profumo che gli lambiva le narici. Gli mancava Gerard, eppure in quel momento un'altra persona aveva il predominio dei suoi pensieri.
Non pensarci, Frank. Con poca attenzione prese alcuni fogli dalla scrivania e li impilò, ricordandosi solo dopo di non aver disfatto la cartella il giorno precedente. Guardò il suo comodino, immaginandosi la lettera nascosta nel cassetto. Di fuori, il cielo era bianco e compatto, una sterile distesa di cotone marmoreo, come una lapide innalzata.
Non pensarci, Frank. Afferrò lo zaino e la giacca, indugiando solo un attimo di fronte alla porta della camera. Non aveva voglia di andare, così come non aveva voglia di affrontare la cosa a casa, da solo. Si sentiva prosciugato, incapace di poter intrattenere un rapporto umano. Non era neanche sicuro di avere fame per la colazione. Ma lo fece comunque, uscì dalla porta e se la richiuse cautamente alle spalle, per poi tirare un lungo sospiro. Non aveva studiato fisica per quel giorno, eppure sapeva benissimo che l'argomento, concentrato sul ripasso, era il moto d'inerzia. Ecco com era. Una pallina in stato d'inerzia, destinata ad un perenne movimento non perché sottoposta a forze, ma perché la spinta iniziale non era attenuata da nessun attrito. Semplicemente rotolava perché doveva, non era mossa da alcuna forza. Si trascinò giù dalle scale, avanzando lentamente verso la cucina, deserta alle sette e mezza di mattina. Evidentemente sua madre era già andata a lavoro, gli aveva lasciato una tazza di caffè ancora caldo sul ripiano, senza alcun messaggio. Accanto, una fetta di pane imburrato con la marmellata. Con un sospiro prese la tazza e la poggiò sul tavolo di fronte a lui, per poi sedersi e guardare fisso davanti a sé, quasi sfidando l'incombente cielo carico di nuvoloni. Lui e sua madre avevano accolto la notizia insieme, avevano visto entrambi l'elegante veicolo scuro fare retromarcia sul viaggetto, lasciando dietro di sé una famiglia non più unita, ma distrutta. Erano stati in due a cercare di affrontarla, seduti sul divano a guardare fuori dalla finestra, sfiorandosi solo con le braccia. Sua madre gli aveva spiegato tutto, aveva accolto le sue domande e moderato la sua rabbia, abbracciandolo come se fosse ancora suo dovere proteggerlo contro ciò su cui non avevano alcun controllo. Era stata lei la prima a piangere, e lui il primo ad andarsene, annunciando che sarebbe tornato giù per cena, cosa che poi non aveva mai fatto. Pensandoci aveva pure fame, si girò a guardare la fetta di pane ma gli salì un senso di nausea che lo fece desistere nel suo proposito. Si portò la tazza di caffè ormai tiepido alle labbra. Non era nausea, era più che altro una repulsione allo stimolo. Non aveva la voglia di mangiare. Quando ebbe finito il caffè prese comunque un coltello e divise in due la fetta, per poi concedersi la metà con meno burro e marmellata. Si infilò la giacca e lo zaino sulle spalle, prendendo un respiro profondo per poi aprire la porta di casa e prepararsi moralmente ad affrontare la giornata. Camminando verso scuola cercò di sciogliere il cavo degli auricolari, ma dopo un paio di minuti di tentavi falliti ed almeno quattro cadute rischiate ricacciò le cuffiette in tasca, affondandoci poi le mani. Rifugiò il viso nel bavero del cappotto ed assunse un'andatura più spedita, ascoltando per la prima volta il suono del silenzio. Nonostante il cielo sembrasse sul punto di cadergli addosso ogni secondo, come se fosse il tetto di un antico tempio greco privato delle colonne, non c'era vento, solo qualche fruscio lontano di alberi e delle macchine che passavano. Quel silenzio vuoto ed accogliente sui toni dell'acqua appena sporca di grigio, ritmato dai suoi passi e dai respiri che creavano delle nuvolette per aria, a volte intervallato da figure di persone lontane e palazzi che si succedevano in una noiosa policromia. Il silenzio che sapeva di neve accatastata ai lati delle strade e di una lavagna bianca appena cancellata, che reca soltanto l'ombra dei segni scritti in nero il giorno precedente, cariche di concetti impressi e subito dimenticati. Lo confortava quel silenzio, quasi si dispiacque quando riconobbe in lontananza gli schiamazzi provenienti dalla sua scuola, appena dietro l'angolo. Un istituto pieno di studenti, a loro volta pieni di vita, e lui era l'unico a portarsi addosso un tale carico. Gli ci volle davvero tanta buona volontà per tenere sotto controllo la misantropia incondizionata verso ogni essere vivente ed attraversare il cortiletto d'ingresso a passo costante, senza lasciar trapelare nulla del suo io in distruzione. Da qualche parte intravide Mikey parlare con una ragazza bionda, ma quello doveva essersi accorto di lui in quanto salutò la presunta Kristin con un bacio e lo rincorse, raggiungendolo non appena le porte d'ingresso si richiusero alle loro spalle. Frank si sentiva male solo a guardare il corridoio, e aveva un'intera giornata davanti.
«Ehi Frank.» lo salutò Mikey facendogli un mezzo sorriso, e lui non mostrava mai alcuna emozione. In un giorno normale avrebbe alzato un sopracciglio e gli avrebbe fatto qualche domanda, ma quello non era un giorno normale, per niente. Si limitò a rispondere con un atono ciao e a proseguire a passo costante nel corridoio, diretto al suo armadietto. Ma il ragazzo non demorse, e andò con lui, cercando di mantenere la sua andatura. Ad un certo punto lo afferrò per un braccio e lo costrinse a girarsi verso di lui, gli occhi che lo scrutavano preoccupati da dietro gli occhiali. «Cosa ti prende?»
«Miks, lasciami.» lo ammonì, cercando di sottrarsi alla presa, ma evidentemente le ore passate a reggere un basso avevano aiutato Mikey a sviluppare una presa piuttosto solida. Tentò comunque di divincolarsi, ma il ragazzo era riuscito a trascinarlo tra due ordini di armadietti, vicino un'aula vuota  «E dai, faccio tardi, lasciami andare porca miseria.»
«Non so se tu ti sia visto allo specchio questa mattina o no, ma hai una faccia tremenda.» wow, grazie per la delucidazione, pensò sarcastico Frank, facendo tornare la mente al suo riflesso disconnesso sui toni del chiaroscuro, ma non lo disse. «Si può sapere cosa ti è successo?»
«Niente, lasciami stare.» replicò stanco, abbandonandosi contro il muro, meditando di scappare non appena Mikey gli avesse mollato il braccio.
«Non ti credo.»
«Cazzi tuoi, voglio solo starmene in pace okay? Ti prego, lasciami andare.» la voce, già roca, gli si spezzò sull'ultima parola, costringendolo ad abbassare il viso per camuffare la smorfia di dolore che gli si era dipinta sul viso. Sentiva le lacrime pungergli fastidiosamente la gola, la testa e gli occhi stremati scoppiare più di prima, gli ci volle tutta la sua forza di volontà per rimanere immobile e non dare sfogo al disagio. Sentiva lo sguardo pungente di Mikey esaminarlo con attenzione, centimetro per centimetro, aumentando il suo imbarazzo in quel momento. Voleva solo fuggire, sparire dalla faccia della terra, diventare uno di quei tanti fantasmi che infestavano la sua mente. «Per favore.» lo implorò, la voce contorta dal dolore.
«Frank...» disse l'altro, ma lui scosse velocemente la testa, poi prese un respiro tremolante e tramutò la sua espressione in una maschera impassibile ed alzò gli occhi nei suoi.
«Miks, non è un bel momento, e ora come ora non mi va di parlarne. No, non è colpa tua, ha a che fare con me stesso e nessun altro, quindi ho bisogno dei miei tempi e dei miei spazi per risolvere la questione. Mi dispiace che tu sia preoccupato, ma non è nulla, fidati, okay? Ora, per favore, lasciami andare.» cercò di esprimersi con chiarezza, senza modulare eccessivamente la voce e mantenendo il contatto visivo. Accanto a loro la fiumana di studenti continuava imperterrita la sua marcia verso le aule ed un futuro offuscato, animati da modiche speranze e dalla prima campanella della mattinata. Tutti proseguivano la loro strada, nessuno si accorgeva di lui, incastrato tra due file di armadietti, ma anche nel suo stesso presente che lo imprigionava come una ragnatela, che sericee ed argentea soffoca gli insetti. Quando Frank percepì la presa sul suo polso allentarsi, si sciolse dalla stretta e senza dare al rimorso il tempo di parlare si girò e corse verso la sua classe, lasciandosi dietro un Mikey scosso e visibilmente perplesso. Frank si morse il labbro, facendo scorrere la lingua sul labret di metallo. Non riusciva, non ce la faceva proprio ad abbattere quel muro di vetro orrendamente appannato, non era Mikey la persona che doveva impugnare il martello e lasciare che i cocci trasparenti si schiantassero al suolo. Il suo fortino di vetro era completo, dopo quello shock era stata aggiunta l'ultima parete, ed ora era incastrato dentro ad ammirare la bellezza del cielo sopra la cupola. Solo. La ammirava da solo, il suo fiato lo soffocava e si condensava sulle fredde pareti, impedendogli di vedere. La sua salvezza, la sua trappola, il prezzo da pagare per la solitudine. Per un attimo immaginò quattro dita sporche di tempera passare sul vetro, pulirlo e lucidarlo per lasciar entrare il sole, ma la visione si interruppe con un sonoro schianto e di nuovo era solo, lui ed i suoi pensieri crudeli, incastrati in qualcosa che forse non si sarebbe mai distrutto, per il semplice fatto che Frank non riusciva a dire agli altri della sua esistenza. Non riusciva a comunicare con lui, dall'altra parte di quel vetro ceruleo e coperto di condensa. Non riusciva a comunicare con nessuno, aveva paura che non ci sarebbe riuscito mai, mai più, incastrato per sempre a riscaldarsi con le sue sole braccia, oltre la sua vista sfocata il mondo che continuava a girare. E lui era solo ad affrontare se stesso. Papà. Papà, dammi la tua mano e butta giù il vetro che hai tirato su andandotene. Non capisco più nulla. Sono solo, ormai non riesco più neanche ad accettare la compagnia. È tutto così offuscato. Frank accelerò il passo, correndo via dai suoi stessi fantasmi.

dear psychologist 【 frerard 】حيث تعيش القصص. اكتشف الآن