Capitolo diciannove.

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«A domani ragazzi!» Claudio sorrise debolmente ai suoi dipendenti prima che uscissero dal bar. Tutti erano rimasti lì con lui oltre l'orario di chiusura, per aiutarlo a sistemare nuovi mobili, anche se Claudio aveva insistito per farli tornare a casa perché poteva farlo da solo.

Quando tutti se ne andarono, Claudio sfilò il cellulare dalla tasca dei suoi pantaloni neri e lo sbloccò. Si corrucciò quando non vide nessuna notifica, o meglio, nessun messaggio da parte di Mario. Gli aveva scritto poco prima di iniziare a sistemare, si erano mandati messaggi tutto il giorno, ed era strano che non gli avesse ancora risposto.

Gli mandò un nuovo messaggio, chiedendogli che cosa stesse facendo, poi andò nel suo ufficio a sistemare dei documenti. Si passò una mano tra i capelli quando vide una miriade di fogli sulla sua scrivania. Avrebbe trascorso sicuramente tutta la notte lì dentro, a sistemare quella roba.

Passò dieci minuti con la testa china sui fogli e la schiena ricurva, fino a quando avvertì il rumore della porta del bar chiudersi. Sollevò di scatto la testa, con la fronte contratta e una strana preoccupazione in corpo.

Era sicuro di aver chiuso a chiave la porta d'ingresso, e dato che erano le dieci di sera si spaventò, temendo potessero essere i ladri o qualche altro malcapitato. Si alzò lentamente dalla sedia e camminò verso la porta chiusa del suo ufficio.

Prima che lui poggiasse ma mano sulla maniglia per aprirla, quella si aprì di scatto facendolo sussultare, indietreggiare e spalancare gli occhi impaurito, pronto al peggio. Ma quando vide Mario far capolino da dietro la porta ed entrare nella stanza, sospirò di sollievo.

«Vaffanculo Mario!» lo insultò però, portandosi una mano sul petto, all'altezza del cuore, che stava battendo all'impazzata per lo spavento appena preso.

Mario sorrise divertito, vedendo le sue mani tremare. «Non pensavo la porta d'ingresso fosse aperta, perché non l'hai chiusa?» domandò poi, chiudendo la porta alle sue spalle e incrociando le braccia al petto.

«Ero sicuro di averlo fatto» ribatté Claudio, scompigliandosi il ciuffo di capelli. «Perché d'un tratto non hai risposto ai miei messaggi?» cambiò subito argomento perché quella era la cosa che più gli premeva chiedergli, dato che il pensiero lo stava facendo corrodere.

Mario sorrise maliziosamente. «Mi sono addormentato» quella era una palese bugia, Claudio lo capì dal fatto che lo disse frettolosamente, senza indugiare troppo per non destare sospetti e, soprattutto, lo disse senza guardarlo negli occhi.

«Ti aspetti che io ti creda? So capire benissimo quando menti, Mario Serpa» lo sfidò, fulminandolo con lo sguardo.

Mario allora rise e si avvicinò di più a lui, poggiando le mani sul suo petto. «E mi crederesti se ti dicessi che mi stavo toccando pensando a te?»

Claudio boccheggiò, sorpreso e con gli occhi inchiodati in quelli neri di Mario. E in quel colore scuro vi lesse la più totale sincerità. Mario non stava mentendo, l'aveva fatto davvero e l'aveva detto in una maniera così spontanea e senza imbarazzo che Claudio quasi invidiò il suo essere sempre così schietto.

«Pensavi a me?» chiese, con la gola secca e il respiro corto.

Mario annuì, accarezzando con la punta delle dita le clavicole del castano scoperte dalla camicia che stava indossando. «Si. Pensavo a cosa avremmo fatto. L'avevo immaginato a casa tua, ma anche qui andrà più che bene» parlò con voce lenta e suadente, che fece mordere all'altro il labbro inferiore e non solo, gli fece anche desiderare di spogliarsi in men che non si dica e farsi prendere il più forte e veloce possibile, in quell'ufficio.

The tale of us. // clarioWhere stories live. Discover now