La funzione

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Ci sono illusioni tanto belle da volercisi perdere per sempre, altre che sembrano così vere da sovrapporsi alla realtà.
Ma, alla fine, restano pur sempre illusioni, e siamo costretti a uscirne, prima che ci si sgretolino fra le dita.

•••

Come al solito, le vie erano affollate. A San Francisco le vie erano sempre affollate, sia di macchine che di persone, e il fatto che fossero le 9:15 di una domenica mattina non cambiava nulla. Le vetture, guidate da persone di tutti i generi e dai volti più disparati, percorrevano le strade asfaltate, mentre, nei marciapiedi a fianco, i pedoni camminavano, ciascuno in modo diverso, chi più velocemente chi meno, lasciando che le suole delle loro scarpe si consumassero al contatto col suolo.

Mi divertivo a osservare i negozi, i palazzi, le persone... Per quanto conoscessi la città, o perlomeno la zona intorno all'orfanotrofio, come le mie tasche, riuscivo ogni volta a notare qualcosa di nuovo, che fosse un nuovo cartello stradale dai colori fiammeggianti o un murales illegale in più. Il fatto che avessi un deficit dell'attenzione aiutava e dava fastidio, a seconda dei casi: il mio sguardo si spostava velocemente da una cosa all'altra, permettendomi di osservare più cose al tempo stesso, però, riuscivo a concentrarmi molto poco su un singolo edificio o oggetto che avevo davanti.

Osservare le persone era divertente, potevi capire un sacco di cose. Per esempio si capiva se una persona era arrabbiata dal modo in cui camminava, dall'espressione del viso, dai movimenti involontari del suo corpo.
Potevi capire se una persona era ansiosa o in attesa di qualcosa, se era felice, se era euforica o triste, spalandoti le porte a una sezione, seppur minima e momentanea, della sua vita.

Ero bravo nel capire cosa stessero pensando le persone, lo ero sempre stato, e con il tempo questa mia "abilità" si era affinata, rendendomi sempre più facile la comprensione dei gesti involontari del corpo umano. Era come esaminare una forma di vita al microscopio: solo se riuscivi a capire come funzionava, potevi dire di averla compresa realmente. Nel caso delle persone, invece di capirne il meccanismo, era necessario rendersi conto dei suoi pensieri.

Qualche volta mi capitava di capire certe cose delle altre persone e di provarle dentro di me. «Empatia», l'aveva definita il mio professore di Matematica, «quella condizione in cui riesci a sentire cosa provano gli altri. È una cosa molto umana». Da come me l'aveva spiegata, era sembrata una cosa davvero complessa, ma a me riusciva praticamente naturale.

In cima al gruppo, suor Cristiana spiegava ai ragazzi cosa sarebbe stato letto nella messa di oggi. Appariva molto infervorata e si esprimenva con ampi gesti delle mani. Io, naturalmente, non ascoltavo, concentrato com'ero ad osservare tutto ciò che mi stava intorno, ed ero abbastanza certo che nemmeno a Michael interessasse più di tanto, a giudicare dall'espressione annoiata dipinta nei suoi occhi.

Dopo un po', svoltammo nella via della chiesa. Ci unimmo ad altri fedeli ed entrammo passando per il portone principale.

Da fuori, l'edificio appariva imponente: nonostante non fosse una cattedrale, aveva decorazioni vistose, sequenze di pietre colorate, qualche piccola guglia e perfino un rosone con vetri colorati, di dimensioni modeste. I colori che prevalevano erano il bianco, macchiato di grigio dal tempo, e un verde spento, che, si capiva, non era stato brillante nemmeno ai tempi della costruzione della chiesa.

L'interno era ancora più stupefacente dell'esterno. Era divisa in tre navate, una grande centrale e due laterali più piccole, gemelle tra loro, illuminate dalla luce che oltrepassava i vetri sulle pareti. I vetri rappresentavano scene dei quattro vangeli di cui ormai sapevo ogni cosa. Dove la luce naturale non riusciva ad arrivare, finti candelabri rischiaravano l'ambiente.
Percorrendo la navata centrale si poteva raggiungere l'altare di marmo, dietro al quale svettava un crocefisso, dai dettagli tanto minuziosi da dare a chi lo guardava l'impressione di trovarsi di fronte a una creatura reale, e non a una statua in bronzo.

Io e Michael ci sedemmo accanto in una panca della navata centrale. Il mio mio sguardo seguì Veronica e un altro dei miei compagni, di nome Simon, che si alzarono per andare a cambiarsi e prepararsi per fare i chierichetti. I due varcarono una piccola porticina sul lato sinistro della chiesa e scomparvero.

Da quella stessa porta, una manciata di minuti dopo, sbucò il corpo esile di un uomo sull'ottantina, con poche ciocche di capelli bianchi e il volto, dai lineamenti ancora arzilli nonostante l'età, corrucciato in un'espressione concentrata. Gli occhi azzurri erano stretti in un chiaro tentativo di riuscire a vedere in lontananza.
«Eccolo» dissi, tirando una debole gomitata al mio migliore amico, per poi indicargli l'uomo sbucato dalla porta.
«Salutami Don Luke.»
«Sarà fatto.»
Sorrisi, e lui sogghignò in risposta.

Feci un cenno al vecchio prete e lo raggiunsi. Dopo avergli riportato il saluto di Michael, imboccammo il corridoio oltre la porticina e ci fermammo alla prima stanza a destra, dentro la quale era riunito l'intero gruppo dei miei "colleghi" musicisti.

Non volevo definirla un'orchestra, perché non è così che ne immaginavo una. Con orchestra intendevo un gruppo, di almeno 20 persone, molto affiatato. E noi, con le nostre 9 persone pronte a fare praticamente qualsiasi cosa per un pettegolezzo sugli altri del gruppo, non incarnavamo proprio la definizione.

Dopo una serie di saluti generali, mi sedetti sull'ultima sedia rimasta vuota e tolsi il violino dal contenitore.

Lo strumento musicale era un generoso prestito da parte della chiesa, e avevo l'obbligo di riporlo e lasciarlo lì dopo l'uso. Erano regole restrittive, ma non potevo certo lamentarmi: già averne uno in prestito era una grande conquista.

Presi il violino, lo appoggiai al mento, e suonai qualche nota, per assicurarmi che funzionasse perfettamente e per scaldarmi un po'.

Ero il più giovane del gruppo, gli altri erano tutti adulti. Qualcuno aveva studiato musica a scuola, mentre qualcun altro aveva solo un po' di basi, ma, alla fine, riuscivamo ad amalgamarci abbastanza bene insieme, con i più, per così dire, talentuosi a condurre gli altri.

Qualche mese prima, Suor Marie aveva chiesto al prete di farmi entrare nel gruppo e di farmi suonare alla messa della domenica, e lui aveva accettato. Volendo, avrebbe potuto rifiutare, dicendo che la musica religiosa che veniva suonata in quella chiesa non era per violino, lui però, per mia fortuna, era stato entusiasta dell'idea, e alla fine avevamo scoperto che le note del mio strumento si univano in modo armonico a quelle degli altri strumenti, così ero entrato nel gruppo, per la gioia degli altri componenti, poiché, a loro dire, davo «una nota di giovinezza al gruppo».

Non molti minuti dopo, eravamo già tutti nelle nostre posizioni e la funzione stava per cominciare. Lasciai scivolare lo sguardo sulle navate, colme di gente
che si apprestava ad alzarsi in piedi per l'inizio della celebrazione.

Dovevo suonare fin dal primo brano, durante l'ingresso del sacerdote e dei chierichetti.

Non appena appoggiai l'archetto alle corde del violino, il resto del mondo sembrò dissolversi in una nuvola di nebbia, proiettandomi in una sorta di illusione in cui ero solo, circondato da note musicali che mi volteggiavano intorno.
Cominciai a suonare e mi abbandonai alla musica per un tempo che mi parve lunghissimo e indicibile tanto quanto bello e sfuggente.

Al confronto la durata della messa sembrò quasi inesistente, eccezion fatta per i momenti in cui suonai gli altri brani.

«La messa è finita, andate in pace.»
Dopo quella frase di rito e l'ultima composizione suonata dal nostro gruppo, i fedeli cominciarono a dirigersi verso l'uscita, mentre i ragazzi dell'orfanotrofio davano una mano a riordinare velocemente la chiesa.

Dato che dovevo raccogliere i libretti e rimettere a posto il violino, rimanemmo per ultimi io e Michael, ad aggirarci tra le panche per raccogliere i fogli rimasti.
«Vai pure avanti, ti raggiungo più tardi» gli dissi.
Lui mi rispose scrollando le spalle e si incamminò verso l'uscita.

Tutt'ora, non saprei dire se le mie parole furono dettate dalla buona o dalla cattiva sorte.

Angolo autrice
Ciao a tutti, ci tengo a precisare, e mi scuso per questo, che non so molto di musica. Mi scuso per qualunque cosa possa avere sbagliato nel capitolo. Vi prego, perdonatemi🙏🏻🙏🏻🙏🏻
I capitoli fino ad ora sono stati un po' noiosi, spero che il prossimo vi piaccia di più.

Cronache di un MezzosangueWhere stories live. Discover now