PIAGA

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Spesso la gente si pone domande assurde. È inevitabile per un uomo soffermarsi su un quesito che è assiduamente ripercosso nella sua mente, anche inconsciamente.

Su cosa gira il mondo? Perché l'essere umano si evolve, e continua a farlo?

Sinceramente, penso sia un dato di fatto.

L'uomo punta alla perfezione. Pochi, definiti intelligenti o stolti, riescono a riconoscere l'inadeguatezza della perfezione, la difficoltà nel raggiungerla o semplicemente l'incapacità di definirla tale.

Non si ha alcun motivo per cui qualcuno vorrebbe rinunciare alla possibilità di essere perfetto, a meno che quest'ultimo sia troppo vigliacco da raggiungerla o troppo orgoglioso da volerla ottenere.

Ma chi detta i canoni di perfezione? L'arte, la storia? Coloro che ci sovrastano, in posizione sociale?

Quando si raggiunge la perfezione, e come si può essere certi di averla raggiunta davvero? Di aver completato l'ultimo stadio e potersi permettere il lusso di considerarsi completi, finiti, perfetti?

Nel nostro piccolo, tutti abbiamo un ideale di perfezione. Quando nessuno te la impone, il tuo subconscio ne illustra una sua personale interpretazione, che ti induce a raggiungerla.

Probabilmente il massimo grado di perfezione di qualcuno può essere il degrado assoluto di un altro.

Per quel che ne sappiamo, finchè qualcuno non ci avrà donato delle risposte, resteremo tutti imperfetti, mai finiti, incompleti.

In fondo non esiste un concetto di perfezione, non finché non si ha la chiara idea di ciò che significa.

Sì, punto alla perfezione. Come molti altri uomini prima di me, sono caduta nella trappola della lussuria. La consapevolezza di aver compiuto errori e continuare a compierne è un peso opprimente che sono certa non riuscirò mai a sopportare, e prima raggiungerò la perfezione, prima mi sarà concessa la grazia.

Potrò perdonarmi i miei peccati, abbandonarli alle spalle con la certezza che non si ripeteranno.

Un desiderio arduo, una necessità imponente, un obiettivo quasi impossibile.

La Stanza dei Giochi è curiosamente silenziosa, oggi. I ragazzi - gli altri Terminal - di fianco a me, silenti siedono alle loro postazioni, guardando il vuoto. Qualcuno si diletta con un libro, qualcun altro prova e riprova la sua opera. A nessuno è concesso di cominciare un nuovo progetto, solo di completarlo.

Fin dove il mio sguardo riesce a focalizzare, tutti i ragazzi hanno finito il loro progetto. Sono solo io, ancora al lavoro. Questo ovviamente non mi destabilizza o demoralizza, so che il mio progetto sarà dei migliori: me lo ha detto il Dottor Erland.

Copernico è quasi compiuto. I pannelli esterni sono stati verniciati di colorante impermeabile, le zampe adattate alla miglior aderenza ad ogni tipo di superficie; la coda, il collo e l'antenna del suono, dopo aver riposato in una cella iperbarica per più di settantadue ore, sono stati riposti con dovere sul corpo.

Sono china sul cranio, aperto. Gli alloggi per i bulbi oculari di pietra vulcanica sono vuoti, e con calma li riempo di un materiale gelatinoso ed appiccicoso, per prepararli ad accogliere gli occhi. Il cervello - un hard disc di medie dimensioni abilitato all'accesso a diversi software online - sembra come in attesa di esser collegato agli ultimi cavi USB nei loro rispettivi alloggi sul pannello di controllo. Uno in particolare, spicca rispetto agli altri: l'alloggio per il chip della personalità.

Sono impaziente di inserirlo, ma sarà davvero l'ultima cosa che farò. Avvito le piccole lampadine a led per i sensori oculari, e inserisco i bulbi nelle fessure. All'interno, i piccoli schermi da fotocamera luccicano alla luce dei neon sul soffitto, e per un attimo mi perdo a guardare in quel nero pece, come se quei due occhi potessero davvero vedermi. La cosa ovviamente non è ancora possibile: Copernico deve essere acceso.

Terminal, La Discendente || di B. J. PorterWhere stories live. Discover now