Capitolo 308: Blanditia, non imperio, fit dulcis Venus.

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La Contessa strinse le labbra con forza, in segno di disappunto, e lasciò ricadere la lettera appena arrivata da Bologna con sdegno: "I Bentivoglio non hanno capito nulla."

Luffo Numai, che stava alla destra della donna, guardò gli altri Consiglieri con i suoi occhi anziani e poi si rivolse alla Tigre con voce incerta: "Mia signora... I Bentivoglio hanno alle spalle Milano e non solo. Bologna è una città ricca. È normale che chiedano garanzie stringenti e..."

"Da che mondo è mondo, al massimo è alla sposa che si chiede una dote, non allo sposo." lo zittì Caterina, guardando spazientita a destra e a sinistra: "Quelle di Giovanni Bentivoglio sono solo scuse. È chiaro che non vuole mandare avanti le trattative di matrimonio tra mio figlio e sua figlia."

L'Oliva, seduto dall'altro lato della Contessa, si permise di prendere il messaggio e rileggerlo rapidamente: "Mi è giunta voce – sussurrò, un po' assorto – che Isotta Bentivoglio potrebbe finire in convento, se questo matrimonio saltasse."

"Non me ne importa nulla di Isotta Bentivoglio!" scattò Caterina, adirandosi anche con il capo delle sue spie: "Scrivete a Bologna e dite che le loro condizioni che vogliono imporci sono del tutto assurde. Se vogliono restare in buoni rapporti con noi, che rivedano le loro priorità. Un simile atteggiamento potrebbe ripercuotersi anche sull'unione tra mia figlia Bianca e il loro caro Astorre, fate sì che nel messaggio questo punto sia molto chiaro!"

E con quelle parole, che stavano ponendo frettolosamente fine a quella riunione straordinaria, la Leonessa lasciò la stanza e andò a passo di marcia fino all'armeria.

Mentre faceva il filo a una spada con gesti secchi e precisi, Caterina cominciò a ragionare sul tono irriverente con cui Giovanni Bentivoglio aveva avanzato pretese nel tirare su il prezzo della figlia.

In tutta coscienza, la Contessa si era sentita male al pensiero che una giovane donna avrebbe dovuto convivere con Ottaviano, ma il tempo e i dispiaceri l'avevano resa capace di mostrarsi insensibile a certe cose, andando avanti per la propria strada, se quello era l'unico modo per ottenere il proprio scopo.

Se Isotta Bentivoglio, però, preferiva farsi monaca, anche contro il reale volere del padre – perché era quella la voce reale che l'Oliva le aveva riferito prima della riunione – significava che ormai Ottaviano era davvero bollato agli occhi di tutti. Di certo la sua lunga detenzione non aveva giovato alla sua immagine, ma era probabile che fuori dai confini del loro Stato fossero giunti altri pettegolezzi su di lui e questo era ancora più grave.

Storcendo la bocca di lato, mentre il suono fastidioso della pietra contro il ferro riempiva l'ambiente, la Tigre vide con la coda dell'occhio il castellano Feo farsi avanti e andarle incontro con un dispaccio in mano.

"Cos'è successo ancora?" chiese la donna, già pensando a qualche catastrofe imminente.

Cesare Feo si accigliò, come indeciso se valutare la notizia come buona o cattiva, e disse: "Pare che il qualche giorno fa, Ferrandino d'Aragona sia morto."

Caterina smise all'istante di fare il filo alla spada. Quella cosa poteva cambiare molte prospettive, non solo per lei, ma per l'Italia intera.

"Si sa già chi prenderà il suo posto? Suo zio Federico?" chiese la donna, alzandosi e lasciando l'arma sul tavolo.

Il castellano fece capire che non ne aveva idea.

"Va bene... Va bene..." borbottò tra sé la Tigre, lo sguardo già perso nei suoi pensieri e una mano sulla fronte.

A seconda del re che sarebbe stato scelto, Napoli avrebbe o meno continuato a combattere, cercando di rimangiare terreno agli stranieri. Da quello sarebbe dipeso l'inizio o meno di una nuova guerra. Una guerra che, ancora una volta, avrebbe visto le città di Caterina tra due fuochi. O quattro, se si fossero date guerra anche Firenze e Venezia.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now