Capitolo 344: Quis legem det amantibus?

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"Dice che potrà sposarci appena dopo Pasqua." confermò Giovanni, aiutando Caterina a togliersi il mantello da viaggio: "Il giorno lo possiamo scegliere noi, perché non ha problemi."

"Ha voluto denaro, per la sua discrezione?" chiese la donna, andando al camino e allungando le mani per scaldarsele.

Il Popolano scosse il capo: "No. Ha solo chiesto di mettere una buona parola per la Compagnia della Pietà e per i Battuti Bianchi. Sostiene che in questa terra si abbia davvero bisogno di qualche opera pia di quel genere..."

La Sforza sbuffò e poi concesse: "Dirò al mio cancelliere di revisionare lo statuto che il Vescovo ha abbozzato. Una volta reso ufficiale quello, in un paio di mesi potranno festeggiare la loro fondazione, visto che ci tengono così tanto. Sempre che accettino le cariche che ho deciso di tenere per me e mio figlio e che i nobili di questa città accettino di affiliarsi ai Battuti Bianchi."

Il fiorentino annuì, sperando che tutte quelle variabili non andassero a rovinare il piano di partenza, e poi, mettendosi alle spalle della Tigre, iniziò a dire: "Io... Ecco, stamattna, mentre aspettavo che tornassi, ho visto un orafo di fiducia, che aveva lavorato per la mia famiglia anche a Firenze. È un uomo molto accorto, di cui mi fido. Ecco, io gli avrei commissionato gli anelli per noi due."

Caterina voltò un poco la testa per guardarlo, a poi abbassò subito gli occhi e tornò a fissare le fiamme del camino.

In quel momento si era subito trovata a ricordare come lei e Giacomo non si fossero mai scambiati gli anelli. Il frate che li aveva sposati non aveva dato peso a quella variazione nel rito, tanto più che anche i più poveri erano soliti evitare lo scambio delle fedi.

Il fatto che dovessero tenere nascosto il loro matrimonio aveva imposto loro anche quel genere di accortezze. Eppure nemmeno Giacomo, che pure aveva un certo rispetto per le leggi e le usanze religiose, non aveva mai fatto cenno a quel dettaglio.

L'anello che le aveva dato Girolamo Riario, invece, la Tigre non l'aveva indossato quasi mai, se non in qualche evento ufficiale a Roma, quando erano sposati da poco. Ogni volta che se l'era trovato al dito, tra l'altro, le era sembrata come una catena che le ricordava che razza di mostro la sorte le avesse rifilato.

"Che genere di anelli sono?" chiese piano la donna, mentre Giovanni restava in silenzio, non capendo esattamente come stesse reagendo Caterina.

"Semplici. Che si notano poco. Mi ha anche fatto vedere un esempio che aveva con sé." spiegò il fiorentino, con voce abbastanza bassa, ma cercando di apparire convincente: "Un classico nodo matrimoniale. Molto leggero, non come quelli che portano certi nobili."

Quella frase, detta così a cuor leggero, ebbe un grosso impatto sulla Sforza che, forse per la prima volta da quando lo aveva alla sua corte, si rendeva conto che Giovanni, di fatto, non era un nobile, come lignaggio, benché ne avesse tutto l'aspetto.

I Medici erano una famiglia ricca, che aveva sgomitato negli ingranaggi dello Stato fino a prendersi un posto di rilievo, ma non erano nobili. Mercanti, possidenti, banchieri, addirittura qualche aspirante poeta e artista, ma mai un nobile vero e proprio. Né un guerriero.

"Un filo d'oro appena." concluse il Popolano: "Se lo porterai assieme ad altri anelli, dubito che lo noteranno."

La Contessa non diceva ancora nulla, ancora immersa nelle sue valutazioni, ma qualcosa nel modo in cui aveva inclinato la testa di lato fece ben sperare l'ambasciatore.

"Lo noteranno, invece." lo corresse la donna, incrinando le labbra di lato e lasciando trasparire un velo di profonda inquietudine.

"Pensi che lo porterai?" chiese Giovanni, domandandosi per la prima se avesse fatto bene a prendere quell'iniziativa prima di consultarla.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora