1. What goes around, comes around

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C'è una parola, in tedesco, che significa "dolore del mondo". È un'espressione utilizzata per la prima volta dallo scrittore Jean Paul per definire la sensazione che qualcuno prova nel momento in cui si rende conto che, nonostante gli sforzi, la realtà non soddisfa le domande della mente; o, più letteralmente, al senso di impotenza da cui si viene assaliti quando si pensa ai mali del mondo. Può essere tradotto in tristezza, empatia o, nei casi più estremi, misantropia.

Quella parola è Weltschmerz.

Ricordo che all'epoca, mentre leggevo la sua definizione, ne rimasi delusa. Mi sembrava così ovvia, scontata, quasi banale: studiavo lingue nordiche da già un anno e mai mi era capitato di imbattermi in un concetto tanto facile da comprendere. I dolori del mondo, alla fine, sono una realtà che riguardano tutti; come si potrebbe non coglierne il significato esatto?

Così chiesi al mio professore di tedesco di parlarmene. Ero avida, volevo sapere tutto nei minimi dettagli, capire e andare più a fondo per sapere.

La sua risposta era stata piuttosto esaustiva: "Se ti piace questa parola, perché non inizi a preparare la tua tesi?"

All'inizio insistetti, incapace di intendere quello che mi aveva detto. Mi sembrava che mi stesse prendendo in giro, che mi stesse arronzando perché non aveva tempo. E, invece, ora sono infinitamente grata al Professor Houston: senza di lui non avrei mai scoperto la bellezza delle parole e della loro etimologia, e il mio sarebbe stato uno studio passivo rivolto unicamente verso uno sbocco professionale. Sarebbero state semplici lingue con regole ed eccezioni da rispettare, verbi da imparare a memoria e costruzioni impensabili; invece, dopo aver conseguito il Master e aver compreso appieno il significato di quelle parole, posso dire con certezza di aver fatto la scelta giusta.

Espressioni come Weltschmerz e Sehnsucht mi sono entrate nel cuore, e con mio grande rammarico non potrò più discutere alcuna teoria con chi mi ha fatto da insegnante e mentore per sei anni.

«Spero di rivederla presto, Professore» gli sorrido, stringendo la mano attorno al carrellino della valigia. «Per me è stato un onore essere una sua alunna.»

«La mia alunna preferita, terrei a precisare» rise lui, sfiorandosi la folta barba bianca sotto al mento. «Prenditi cura di te, d'ora in avanti. E comprati un dizionario nuovo... Quello che hai è completamente distrutto.»

Trattengo una risata, un leggero pizzicore mi fa chiudere gli occhi. Mi viene da piangere e lo so, lo so che non dovrei, lo so che ho ventiquattro anni e sono troppo grande per comportarmi da bambina. Per questo decido, prima di lasciarmi andare al pianto, di tendergli la mano e salutare Victor Houston, linguista e filosofo di lingua e letteratura tedesca alla Georgetown University.

Mi volto in fretta, abbassandomi gli occhiali da sole sul naso e scostandomi i capelli dal viso. Il tiepido sole di Aprile mi scalda le guance mentre mi dirigo verso l'auto, tenendo le chiavi ben chiuse nel mio palmo.

Sono nervosa, felice, esausta e soprattutto pronta.

Pronta ad accettare tutto quello che la vita mi riserverà d'ora in avanti, a tornare a casa definitivamente. Anche se mi trovavo a poco meno di un'ora di distanza dai miei genitori, mi sembra che sia passata una vita dall'ultima volta in cui li ho visti.

Faccio appena in tempo a sedermi al posto di guida che il mio telefono squilla. È il rumore di un messaggio.

"Che ne dici se stasera ci vediamo?"

Un sorriso si dipinge sulle mie labbra mentre cerco di asciugarmi le lacrime, respirando a fondo e stringendo una mano sul volante. Poi, quando mi sono ripresa, digito velocemente una risposta.

La tempesta nei tuoi occhiWhere stories live. Discover now