5. The wind and its wings

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Se c'era una cosa che proprio non mi aspettavo era di trovarmi da sola con Jace... di nuovo. Non appena abbiamo finito di mangiare, infatti, Jordan ha ricevuto una chiamata urgente dal lavoro e Bastian si è offerto di accompagnarlo con la sua macchina, lasciandoci soli da un momento all'altro.

Non me la sono sentita di tornare subito a casa. Non ho niente di importante da fare, se non recuperare qualche film e controllare incessantemente la posta elettronica nel caso qualcuno mi contatti per via del curriculum, e lasciare Jace a piedi – letteralmente – mi sarebbe sembrato brutto. Tralasciando questo, non so ancora come io sia finita in centro. Ci siamo scambiati poche frasi, più per decidere cosa fare piuttosto che per avere davvero una conversazione, e un attimo dopo avevo già parcheggiato.

Mi stringo nel cappotto nero di mia madre, quello che mi ha prestato senza nemmeno saperlo, e un po' mi pento di aver indossato un indumento così pesante. Ha smesso di piovere già da un pezzo, le temperature si sono alzate abbastanza da potermi permettere una giacchetta leggera nonostante l'umidità. Fortunatamente gli anfibi non tengono troppo caldo, altrimenti avrei costretto Jace ad aspettarmi mentre mi cambiavo.

«Quanta gente!» esclamo mentre mi guardo attorno. «Non credevo ce ne sarebbe stata così tanta anche poco dopo pranzo.»

«Dovresti vedere Milano» Jace si infila le mani in tasca, il suo orologio sporge dalla manica della giacca. «Lì nessuno si ferma mai, sono sempre tutti pronti a camminare per le vie che circondano il Duomo.»

«E sono davvero così tanti?»

Stira le labbra in un sorriso. «Più del doppio di quelli che vedi qui.»

Resto senza parole. Non riesco a immaginare una città più affollata di Washington, forse perché non ne ho mai visitate molte. Ma no, non è solo per questo: invidio Jace per aver avuto la possibilità di incontrare altre persone, farsi carico di altre culture e renderle proprie. Lo invidio perché non credo avrò mai il suo stesso privilegio.

«È bella?» gli chiedo. «Milano, intendo.»

Decidiamo di tornare a camminare con un cenno, lui annuisce per rispondere alla mia domanda.

«Molto. Ogni volta che credevo di averla vista tutta, c'era quel qualcosa in più che riusciva a stupirmi. Non parlo solo dei monumenti storici e delle opere d'arte, no...» fa una pausa, si perde con lo sguardo nella folla. «Quella città ha molti più segreti di quanti se ne possano effettivamente immaginare.»

«Ti sei trovato bene, allora.»

«Non è un concetto che posso spiegarti a parole, però sì. Quando partii mi sembrò di morire, ma una volta arrivato è stata tutta un'altra storia.»

Nascondo il naso nella sciarpa. Sentirlo parlare in questo modo della sua esperienza in Italia mi fa stare male e non riesco a capirne il motivo. Ricollego questo senso di estraneità alla mia invidia, eppure riesco a percepire, nel profondo della mia anima, che c'è di più. E quel "più" non so razionalizzarlo, non so dargli un nome, ma non fa altro che aumentare il mio dolore al punto da renderlo viscerale.

Sono davvero, davvero tanto felice per lui. Sono contenta che sia cresciuto in un ambiente diverso, che abbia potuto provare emozioni e sensazioni che io forse non posso nemmeno sognare, ma allo stesso tempo non riesco fare a meno di sentirmi malinconica.

Chissà, forse nemmeno malinconia è la parola giusta.

«Parlami delle persone che hai conosciuto» mormoro, socchiudendo gli occhi quando si alza il vento.

"Voglio sapere tutto, tutto, tutto."

"Di te."

Rallenta il passo per permettermi di camminargli affianco. «In realtà, vorrei raccontarti di una ragazza che ho aiutato prima di tornare qui.»

La tempesta nei tuoi occhiWhere stories live. Discover now