Il microonde

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Il microonde produce uno strano suono, una sorta di sfrigolio meccanico. Alzo gli occhi per comprenderne la causa, un'impresa difficile, visto che ho dormito quattro ore. La guancia si è modellata alle nocche della mano, imitata, anche se in modo meno letterale, dal gomito sul tavolo. Stringo gli occhi e mi concentro. Il rumore non accenna a fermarsi, e quando le mie pupille si dirigono sulla macchina che lo produce capisco il perché. La lampadina interna sta andando a intermittenza. Si accende e si spegne, creando uno scenario spettrale. No, non spettrale. Distopico. Quel distopico da zombi. Chiaro, no? Gli zombi. Nei film o nelle serie tv c'è sempre qualche luce che si accende in modo discontinuo, e lì, dietro l'angolo, c'è uno zombi. Passo claudicante, denti in mostra, mani artigliate sull'aria.

Come mi siano venuti in mente gli zombi, è un mistero. Sarà che il tecnico che ieri sera ho trovato nel corridoio li ricordava in modo agghiacciante. Agghiacciante, sì. Aveva la pelle grigiastra e delle macchie sparse sul viso. Credo di averlo già visto, un paio di volte, e lui, a suo modo – il modo che gli permetteva il suo incedere zombesco – deve aver pensato la stessa cosa.

Il bip prolungato del forno pone fine al mix di rumore e lampi da fine del mondo, quindi mi alzo per prendere il caffè. Il caffè fatto nel microonde. La scelta era tra questo e quello della macchinetta e, beh, non era facile. Sarò costretta a prenderne un'altra marea, visto che dovrò rimanere qui dentro fino a stasera; ho pensato che alternare le modalità sarebbe stato un buon modo per sopravvivere alla giornata. È da quattro ore e mezzo che non ne bevo uno e ne sento un bisogno viscerale. Apro lo sportello e prendo la tazza di latte caldo, poi ci butto dentro la bustina che dovrebbe creare – magicamente – un caffè. Di magico, però, questa brodaglia marroncina non ha niente. L'aroma è finto, e lo è anche il sapore. Ci metto tre bustine di zucchero e giro il cucchiaino. Chiudo le mani intorno alla mug e assorbo il calore. La nuvola di vapore è delicata, appena visibile, si condensa e disperde in un punto imprecisato della stanza.

Questo è il nono caffè in 24 ore. Niente male, vero? Prima che possiate dubitare della mia sanità mentale per la scelta di continuare a bere una cosa tanto disgustosa, vorrei farvi presente che i primi quattro erano fatti con la moka. Una splendida, divina moka che non ho idea di dove sia finita. Il quinto era della macchinetta – sì, è stata la prima volta che ho ceduto –, il sesto e il settimo del microonde. Esatto, questa zuppa fangosa che sa di latte e altre cose strane. L'ottavo era un fantastico espresso. Ho deciso di fare il giro di tutta l'azienda, passando dalla zona produzione, per poter raggiungere la macchina per produrre un caffè vero, da bar. Un caffè all'italiana. Un caffè che si merita tale nome.

«Bleah, che orrore», dico appoggiando la tazza sul tavolo. «Perché due cose magnifiche come il caffè e il latte, messe insieme dentro un microonde, non danno vita a una bevanda fenomenale?» domando a voce alta.

Non dovrei farlo, visto che da un momento all'altro qualcuno dei miei colleghi potrebbe entrare nella sala pranzo e ascoltare i miei deliri solitari, ma mi annoio. E mi sento sola. Sono dodici ore che non vedo nessuno all'interno di un'azienda che di norma pullula delle più disparate tipologie umane.

Sorseggio ancora il cappu-schifo ma non riesco ad arrivare in fondo e mi decido a buttarlo via. È di sicuro meglio quello della macchinetta. Finto, troppo caldo, pastosamente liquido, ma con maggiore caffeina. 

Agguanto il telefono, che avevo lasciato a testa in giù sul tavolo, e provo a fare il numero di mia sorella. Non so il motivo, ma la wifi non funziona. Ha iniziato ad avere qualche problema ieri pomeriggio e non è stato ancora risolto. Anche la telefonia ha qualcosa che non va perché non ricevo messaggi né riesco a inviarne. Ci provo comunque, lasciandole un vocale.

«Jess», attacco. «Jess, non ne posso più di stare qui. Te l'avevo detto che sono sola, vero?» Ho registrato qualcosa una mezz'oretta fa e credo di averglielo fatto presente, però lo domando lo stesso. «Stasera ci prendiamo una pizza, ci stai? Dovrei tornare a casa per le nove e mezzo, sempre che il capo mi lasci andare. Lo spero tanto. Tra dieci giorni ho l'esame di diritto e non ho idea di come fare a passarlo», confesso. «Spero che ti arrivi il messaggio. A dopo», concludo.

Il fatto di non riuscire a comunicare con nessuno non mi mette bene. Proprio no. Tento di mantenere la mente impegnata per non immaginare strani eventi fuori da qui. Scenari catastrofici e similari. Tanto non posso uscire, da qui. Per uno strano motivo difficile da comprendere, l'azienda è chiusa. Si entra, ma non si esce. Ho fatto un giro davanti all'entrata, stanotte, verso le tre, e l'uomo che controlla l'ingresso dormiva. Bavetta sul labbro, bocca spalancata. Ho provato a chiamarlo, a svegliarlo, ma non ci sono riuscita. Ho tentato di prendergli le chiavi, di scassinare la porta, di telefonare. Ho anche urlato, un paio di volte. Tanto ero sola. Sola. Con l'uomo sbavante che non si destava in nessun modo.

Faccio un respiro profondo e metto il cellulare in tasca tornando a concentrarmi sull'università. E il lavoro. A pensarci bene, l'idea di venire qui per potermi pagare gli studi non è stata geniale. Certo, sono stata fortunata a trovarlo, questo lavoro, ma potevo evitarlo. Sono l'unica sotto i trentacinque anni. E ne ho ventuno. Non è un caso che io sia stata la sola disposta a passare qui la notte. Se mi sono pentita? Ah. Non penso ci sia bisogno di rispondere.

Sono le dieci meno venti di mattina e ancora non c'è nessuno. Non è normale.

No.

Caffè ZWhere stories live. Discover now