La macchina del caffè

31 4 2
                                    

Mi gratto una mano e muovo qualche passo. Destinazione: macchina del caffè. Prima o poi incontrerò qualcuno. Un collega, gli addetti alle pulizie, qualche dirigente. Spingo la porta con il palmo aperto e mi immetto nel gigantesco corridoio bianco. Vuoto. Silenzioso. E senza finestre.

I miei piedi si addentrano cauti con la pretesa di non fare rumore. Sia mai che riesca a sentire qualche suono che proviene da altre parti, penso. E mentre lo penso, succede. Uno strano clunk ripetitivo inizia ad aleggiare nell'aria e aumenta mano a mano che mi muovo.

Mi fermo. Prima di andare verso ciò che potrebbe risolvermi la giornata – e i mille enigmi che ne sono scaturiti – pondero bene se sia la scelta giusta da fare. Insomma, posso anche sembrare tranquilla e rilassata, per niente spaventata e assolutamente padrona della situazione, ma è chiaro che non lo sono. Non lo sono affatto. La verità è che sono terrorizzata. Fisso le mie scarpette da ginnastica e spazio sui jeans stretti che mi fasciano le gambe.

«Dai, Mel, è tutto ok», dico ad alta voce. Non dovrei, anche se sotto sotto spero che qualcuno mi senta e che chiunque produca il clunk decida di smettere di farlo, o di tranquillizzarmi. Basterebbe un "ehi, è tutto ok", e starei alla grande. Ma quel dannato clunk non si ferma. Ritmico, cadenzato, prepotente, continua a farsi sentire.

Mi guardo intorno alla ricerca di qualcosa. Un'arma, una persona, un monitor funzionante. Sento il sudore che mi cola sul collo, i palmi delle mani appiccicosi. Vista la situazione, nemmeno troppo appiccicosi. Poi faccio una cosa stupida, molto stupida, che riassunta in poche parole è: bere caffè.

Ciò che decido in questi istanti in cui l'adrenalina circola impetuosa dentro di me, è che prima di affrontare qualunque cosa ho bisogno di prendere un caffè. 

È chiaro che siete stupiti. Lo sono anch'io. Caffeina dipendente o meno, la paura dovrebbe vincere. Eppure non lo fa. Non chiedetemi perché, non lo fa. È come se il mio corpo gridasse che ho bisogno di quella sostanza. Come se mi dicesse che senza quella non andrò molto lontano, ed è lo stesso messaggio che mi manda da 26 ore. Quando mi sono svegliata, poco fa, non è stato un allarme a farmi alzare dalla sedia su cui mi ero appisolata, ma la necessità di farmi un caffè.

Dunque, il mio cervello si aziona e inizia a ragionare. Davanti ai miei occhi, e intorno alla mia testa, prendono a circolare rette e calcoli matematici che hanno la funzione di aiutarmi a capire come uscire da questa situazione. Se vado alla macchina del caffè, quella da cui sono sicura provenire il clunk, non è detto che riuscirò a inserire la monetina per prendermi un bicchiere di brodaglia. Ma è anche vero che se vado al piano di sopra, dovrò perdere tempo a cercare la moka che ho perso in un momento non precisato del giorno precedente. Questo significa che potrei dover affrontare cose che non voglio affrontare, a partire da una pausa troppo lunga dall'ultimo caffè, che risale a sei ore e mezzo fa, se escludiamo il tentativo al microonde.

In un angolino remoto della mente, l'ipotesi zombi si fa consistente. Non saprei indicare l'esatto motivo per cui lo fa, ma lo fa. Il tizio che ho visto ieri sera, e che sembrava più morto che vivo, potrebbe essere uno. E la guardia all'entrata dell'azienda, quella con la bava alla bocca, non sembrava tanto in forma. Pensandoci bene, pareva addirittura legata alla sedia. E poi, non so, uno strano formicolio che mi scorre nella parte destra del corpo e che si placa solo con il caffè.

Caffè. Chiudo gli occhi e faccio un respiro profondo. Desidero rimandare l'inevitabile il più a lungo possibile. Tra l'inevitabile, considero:

A – c'è un motivo sensato e umano per cui non è possibile comunicare con l'esterno, uscire e vedere personale vivente che cammina negli uffici. Mi sto facendo condizionare dai film che ho visto e sto costruendo realtà alternative.

B – gli zombi esistono. Quello che ho visto stanotte era uno zombi. Il tizio all'entrata dell'azienda era uno zombi. Sto costringendo il mio istinto a rimanere su binari reali per non impazzire, da sola, chiusa qui, senza nessuno a cui appigliarmi per venire fuori da questa orribile apocalisse.

Ora che ho analizzato i punti, non mi rimane che trovare una soluzione al problema principale, il caffè. Nonostante il clunk provenga chiaramente da lì, scelgo di andare alla macchina. Senza armi. Senza nessuna difesa. Se non contiamo la monetina che da alcuni secondi tengo tra le mani.

Mi rimetto in cammino e il rumore aumenta, si fa più vicino. Lo ignoro. Fingo di ignorarlo. Ho anche smesso di sudare, tanta è l'ansia. Un passo dietro l'altro, Mel. Senza paura.

Ok, con un po' di paura, ma un passo dietro l'altro.

Svolto l'angolo e mi trovo nel disimpegno tra un corridoio e l'altro e lì, illuminata come uno stadio per il Super Bowl, c'è lei, la macchina. Ma insieme a lei c'è anche il clunk, o meglio, il produttore del clunk. È un uomo, o forse un ragazzo, e potrei anche riconoscerlo se solo smettesse di battere la testa contro una parete.

Una persona nel pieno delle proprie facoltà mentali avrebbe provato a interagire, o a scappare. Avrebbe controllato le sue condizioni, o sarebbe tornata indietro. Peccato che io non sia nel pieno delle mie condizioni – e facoltà. Come lo so? Riesco a pensare solo al caffè. Ecco perché, senza fare troppo rumore, vado davanti all'apparecchio, inserisco la monetina, digito il numero giusto – espresso macchiato – e aspetto. Vi starete chiedendo dov'è il tizio.

Proprio accanto a me. Non mi guarda, non fa cenni di comprensione, sbatte la testa contro la parete della macchina. Io dovrei sudare, ma non lo faccio. Dovrei avere paura, ma non ne ho. Non troppa, almeno. Perché un po' c'è, anche se il mio cervello riesce a mandare un unico input: necessità di caffeina.

Il vassoio di plastica si apre e un piccolo braccio meccanico posa il bicchiere su una piattaforma mentre il mio collega dà una delle sue capocciate.

«Ehi», reagisco. Mossa sbagliata, di sicuro. Prima di accertarmi della sua reazione, allungo una mano e impugno la bevanda. Senza pensare, inizio a mandarla giù.

Magia. Magia pura. Fa schifo, ha un sapore orrendo e posso sentirne la polvere tra i denti, ma è uno schifo magico che sembra rimettermi in sesto. Adesso, decido, posso guardare il tizio.

«Stai bene?» domando.

Continua a battere la testa contro il vetro, quindi non sta affatto bene.

«Hai bisogno di aiuto?»

Lui sembra reagire a qualcosa, produce un suono curioso, come di qualcuno che annusa l'aria. Non so per quale motivo scelgo di spostarmi per guardarlo da più lontano, però è una fortuna che lo faccia perché è quello il momento in cui un'arma da fuoco fa bum. Bum. È il suono che sento, mentre uno scoppiettio sottile ma invasivo mi percuote le orecchie. Mi giro rapidamente – non ho idea di come – e vedo un proiettile che colpisce il tizio. Lui si ferma, da dietro sembra quasi stupito, e dopo qualche secondo cade a terra.

«Alza le mani!» grida una voce. Senza pensarci due volte, lo faccio. Non capisco perché, e non so nemmeno chi ha dato l'ordine, ma lo faccio. Poi mi giro. 

«Uooooouuuu!» grido, «uou!» ripeto.

Caffè ZWhere stories live. Discover now