1. Cara Prof - Parte 2

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10/06/2005

La Cicas consulta pensierosa il registro personale. «Moscato!» dice alzando il tono di voce, «E tu mi fai preoccupare per niente. In confronto a tre impreparati, quattro e mezzo è un bellissimo voto. Perché vuoi rovinare tutto con un'altra domanda?» chiede sarcastica. Moscato non ribatte ma stringe gli occhi e aggrotta le sopracciglia. Conosco quello sguardo. Ce l'ha ogni volta che gli vengono i cinque minuti e ci vede come tanti bersagli da colpire con qualunque cosa gli capiti a tiro. A saperlo bene è Carlotta, centrata in pieno viso con uno zaino: naso rotto, intervento chirurgico e tre settimane di convalescenza sono stati il prezzo da pagare per averlo battuto nella conquista dell'ultimo banco. Ora che ci penso. Una faccia simile gliel'ho fatta venire proprio io. Era un sabato mattina del primo anno e Moscato aveva imposto a tutta la classe di saltare la scuola. I filoni di massa sono sempre stati la sua specialità: ne organizza uno ogni volta che non gli va di entrare e gli manca il coraggio di dirlo a suoi. Come tante marionette obbedirono tutti senza fiatare. Tutti tranne me. «Io entro.» dissi senza pensarci un attimo. Nessun gesto eroico né tanto meno una voglia smisurata di fare lezione. Semplicemente, battevano come un chiodo fisso nel mio cervello le ore del giorno prima impiegate a: tradurre Fedro, scomporre polinomi, parafrasare l'Eneide, imparare gli Etruschi ed eseguire la proiezione ortogonale della piramide a base pentagonale ruotata. Avrei dato un senso a quel pomeriggio a tutti i costi.
Mi ricordo che Moscato assunse la stessa espressione accigliata di adesso e in più allargò le narici come quelle di un drago pronto a sputare fuoco. Secondo il mio modo di vedere le cose poteva anche arrabbiarsi ma non di certo decidere cosa potevo o non potevo fare. Quindi, senza paura, mi avviai verso il portone. Avevo quasi raggiunto il marciapiede davanti scuola quando all'improvviso mi sentii tirare all'indietro da qualcuno che mi aveva agguantato per il cappuccio della felpa. Mi fu subito chiaro che Moscato aveva un altro modo di vedere le cose. Lo riconobbi dalla voce. Farfugliava qualcosa a proposito della punizione che i suoi gli avrebbero inferto se lui, a differenza di anche uno solo dei suoi compagni di classe, non fosse entrato.
Mentre mi trascinava dall'altra parte della strada un'auto procedeva spedita verso di noi. Tentai di svincolarmi ma mi teneva così forte che non potei fare altro che chiudere gli occhi scongiurando il peggio. Un forte stridio di freni mi lacerò i timpani. Quando tornai a guardare il veicolo era miracolosamente fermo a un palmo dal mio corpo, l'autista era balzato fuori dall'auto esclusivamente per inveirmi contro e decine tra studenti e passanti mi stavano fissando. Di Moscato neanche l'ombra. Si era riunito ai compagni di classe, sottraendosi all'ultimo momento al pericolo di essere investito e mi guardava con un ghigno di sfida sul viso, come per dirmi: "Ecco cosa succede a chi non fa quello che dico". A quel punto, come per incanto, Fedro, polinomi, Eneide, Etruschi e piramide andarono a farsi benedire rimpiazzati da un solo e unico pensiero: non dargliela vinta per nessuna ragione al mondo. Accettai la sfida e più determinata di prima mi incamminai di nuovo verso l'entrata ma questa volta a seguirmi, spinta dalle mie stesse intenzioni, fu metà della classe lasciando Moscato del tutto impotente. Uno dei miei pochi momenti di gloria. Peccato che a lui non fece lo stesso effetto. Anzi, direi piuttosto che da quel giorno mi odia e non perde occasione per cercare di vendicarsi. E così la scuola è diventata un vero e proprio spasso. Le mie giornate trascorrono impedendo, da un lato, che la Cicas realizzi il suo sogno proibito di abbassarmi la media e schivando, dall'altro, matite appuntite e cassini sporchi di gesso che Moscato mi lancia rigorosamente ad altezza viso. Questo, fingendo per un piccolo ma piacevolissimo istante che Loretta sia soltanto uno di quegli incubi che ti assalgono dopo una cena a base di peperonata.

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