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Casa era proprio come l'avevo lasciata: mia madre detestava gli spazi vuoti ed aveva riempito pareti e vetrinette di quadri e cornici, soprammobili, centrini ricamati, bambole di ceramica vestite come nell'ottocento che osservavano il vuoto con occhi morti di ghiaccio, fotografie impolverate di parenti che non avevo mai conosciuto e che, con ogni probabilità, non aveva mai conosciuto nemmeno lei, animaletti in vetro di Murano, attestati, diplomi, certificati di laurea, ricordi di viaggi in paesi lontani, in epoche diverse.

Tutte quelle cose ammucchiate in serie, senza soluzione di continuità, senza un senso, solo per riempire gli spazi mi avevano sempre messo una certa ansia e, forse, era per quello che avevo arredato casa mia con mobili semplici, colori basilari e pochissimi quadri.

Entrare dopo tutti quegli anni era come perdere la cognizione del tempo, ci si sentiva soffocare, mancare l'aria, quasi che la casa stessa stesse reclinando su di sé, come se fosse troppo stipata di roba senza senso, come per colmare un vuoto che, comunque, gridava incessantemente, senza sosta.

Perché quel vuoto era tutto ciò che era rimasto in quella tremenda casa deserta, silenziosa e gelida. Piena di polvere, di ricordi di anni passati, di vite spezzate e gente morta da decenni, di un passato che non sarebbe mai tornato, perché era finito, sepolto sotto strati di terra arida.

Dopo aver suonato il campanello, la porta si era aperta con uno scatto secco senza che nessuno chiedesse chi fossi.

Era tipico dei miei genitori: non dovevano chiedere mai, non c'era bisogno, perché conoscevano tutti e tutti sapevano che mio padre, che aveva fatto parte dell'esercito, aveva una pistola regolarmente denunciata e che era tutt'ora un ottimo tiratore.

Nessuno si sarebbe mai messo contro mio padre.

Nessuno con un minimo di sale in zucca, almeno, perché oltre ad essere armato, aveva anche un fisico imponente: alto, massiccio, due folti baffi grigi e arruffati.

Salii le scale con relativa tranquillità, alzai la testa verso l'alto e la vidi, sulla soglia di casa, con un'espressione sorpresa e perplessa sul viso.

Alta, magrissima, con capelli perfettamente acconciati e senza un singolo filo bianco, vestita elegante anche se fosse un qualsiasi pomeriggio di maggio, con un tailleur scuro e il classicissimo ed immancabile filo di perle bianche. Quelle che avevo sempre visto intorno al suo collo candido e lungo.

-Laura – disse senza alcuna intonazione nella voce.

-Ciao mamma – risposi fermandomi proprio di fronte a lei. Ci guardammo per qualche secondo, come per studiarci, mi scrutò con attenzione, prendendo con cura nota del mio vestito stropicciato, della mia abbronzatura tendente al rossiccio, dei capelli appiccicati sulla fronte dopo la lunga passeggiata sotto al sole.

-Come mai sei qui? - chiese alla fine, alzando un sopracciglio.

-Passavo da queste parti – cercai a mia volta di mantenere una apparente calma, una freddezza che, in fondo, non avevo affatto.

-Non si passa da queste parti, se si abita a Roma: ci si deve venire di proposito – commentò senza distogliere lo sguardo. Rimanemmo in silenzio come cecchini che studiavano i rispettivi punti deboli: non c'era tenerezza, non c'era complicità. E capivo alla perfezione perché fossi stata lontana così tanto tempo, non ero a casa, non c'era niente che mi facesse sentire a mio agio.

-Infatti, mi fermo a Bologna stanotte – annuii, convincendomi che non le avrei permesso di iniziare la sua solita tiritera su quanto le notizie che davo fossero sempre e comunque imprecise – riparto domani domani mattina sul presto, devo rientrare in ufficio nel primo pomeriggio.

TrentacinqueTempat cerita menjadi hidup. Temukan sekarang