Capitolo 26

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"Cos'è successo?" La voce di Linda risuonò forte per i corridoi della terapia intensiva. Non sapevo come, probabilmente avevo fatto pena alla dottoressa, ma l'avevo convinta a farmi entrare.

Beatrice diventava sempre più pallida, quasi si confondeva con le lenzuola con cui era coperta. Il suono che emetteva la macchina che controllava i battiti del cuore era la mia unica fonte di sicurezza. Fin quando batteva il cuore, avevo una ragione in più per crederci.

Linda spalancò le porte della sala, quando vide sua figlia su quel letto si portò le mani alla bocca, scioccata. Non andavano d'accordo, ma era pur sempre sua figlia. Si avvicinò lentamente al letto, accarezzò il volto della figlia con delicatezza, come se avesse paura di romperla.

"Bea." Sussurrò, con un filo di voce. "So che non è il massimo, ma sono qui. È tutto okay, ora." Accarezzò la sua mano, a cui era collegata una flebo con dei medicinali.

Bea non si svegliava, avevano detto fosse in coma. Non si sapeva quando e se avesse riaperto gli occhi, e soprattutto, nel caso in cui si fosse svegliata, se ci fossero state ripercussioni sulla sua 'normalità'.

Linda alzò lo sguardo verso di me. Lo avevo incrociato molte volte, ma mai era stato così carico di odio.

"È tutta colpa tua." Mi puntò un dito contro, le vene sul suo collo si gonfiarono. "Mia figlia rischia la vita ed è solo colpa tua!" Digrignò i denti, fece il giro del letto solo per raggiungermi.

"Una macchina non si è fermata al semaforo, non potevo saperlo..." provai a giustificarmi, ma in fondo era vero. Bea era lì a causa mia.

"Bea potrebbe morire grazie a te." Sussurrò. Mi spintonò da una spalla, finii con le spalle al muro e mugolai dal dolore. La schiena ancora mi doleva.

"Non potevo saperlo..." ripetei, questa volta in un sussurro. Non potevo addossarmi la colpa di tutto, non era di sicuro solo la mia. Però mi sentivo responsabile, forse avrei dovuto usare maggiore prudenza.

"Se ti vedo ancora nei dintorni, ti faccio causa." Sussurrò la madre, con una cattiveria tale da spaventarmi. "Non mi sei mai piaciuto, questa è la volta buona che ti mando in carcere. E tesoro, ho tutti i poteri per farlo. Sono un avvocato, ricordalo."

"Io non me ne vado senza sapere che sta bene." Dissi, riprendendo le redini della situazione. Quella donna era manipolatrice e cattiva fin dentro il midollo, non dovevo lasciarmi spiazzare da lei e dalle sue minacce.

"Forse non hai capito bene chi comanda ora..." disse, scuotendo la testa. "Posso farti passare la vita dietro le sbarre."

"Come al solito, non ascolta affatto." Dissi, gonfiando il petto di orgoglio. "Se pensa che stando lontana da me, Bea starà meglio, lo farò, ma non prima di vederla aprire gli occhi."

Linda incrociò le braccia al petto. "Lontano un miglio da lei." Chiarì.

"Anche in Australia, se è quello che vuole." Dissi. Non potevo starmene lì, sapendo che si trovava in quel letto a causa mia e della mia imprudenza. Era in coma, in fin di vita a causa mia. Non potevo restare lì, e continuare a tenerle la mano con la consapevolezza che quella stretta non avrei più potuto sentirla a causa mia. "Ma non prima che si svegli."

Linda mi guardò con sfida. "È la cosa giusta per lei. Sei stato solo dannoso nella sua vita."

E con quelle parole, uscii dalla rianimazione.

Furono settimane intense, in cui ogni giorno persi qualcosa: persi Marco che, arreso alla morte della sua fidanzata, aveva lasciato sia Rimini che l'idea di studiare a Napoli, non sapevo dove sarebbe andato ed ero sicuro che non me l'avrebbe detto; abbandonai l'università di Roma e mi iscrissi a Milano, Bea non avrebbe saputo niente; e a mano a mano che passavano i giorni, perdevo anche le speranze di tornare a vederla sorridere.

Mi ero messo dalla mia parte un guardiano della rianimazione, che mi faceva entrare ogni volta che Linda tornasse a casa. E sentire solo quel fastidioso suono di quella macchinetta stava iniziando ad abbattermi. Mi mancava la sua voce, le sue carezze, i suoi baci. Mi mancava vederla sorridere e vederla mangiare come se non ci fosse un domani.

Passarono esattamente tre settimane, seppi solo che Beatrice, finalmente, aveva aperto gli occhi, circondata da vari amici, e sua madre. Quest'ultima, mi aveva impedito di entrare nella sua stanza per vederla.

Linda uscì dalla sua stanza, mi venne vicino a passo lento ma vittorioso. "Ha un vuoto di memoria." Mi disse, appoggiandosi con le spalle al muro, accanto a me. "Dicono che solo standole vicino, ora, possiamo fare in modo che si ricordi noi. Come stampare una copia di un libro andato distrutto. Mi sembra chiaro che, ovviamente, tu ora andrai via di qui e non ti farai più vedere. Mi assicurerò che tu non venga nominato nemmeno per sbaglio."

"E se dovesse ricordarsi di me?" Le dissi, alzando lo sguardo verso di lei. Il peso che portavo dentro era così grande che a stento respiravo.

"Farò in modo che questo non avvenga."

Incrociai Bea per i corridoi qualche secondo dopo, quando la portarono alle stanze dopo aver avuto la certezza che stesse bene. Anche lei incrociò il mio sguardo, ma lo distolse dopo pochi attimi, come se fosse nulla. E lì capii che era davvero finita.

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