Astrea - Capitolo 12

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Sento la serratura scorrere e la luce dell'esterno invade la stanza, accecandomi. Non so se sia la mutazione genetica o il fatto che stia sempre al buio ma io e la luce non andiamo proprio d'accordo. Scuoto la testa e cerco di liberarmi dalla tenda di capelli che mi ondeggia davanti agli occhi. La porta si chiude e così posso vedere meglio, adesso che siamo tornati al buio, la figura che mi sta di fronte. È mio padre, che è venuto a farmi visita nelle vesti di medico. Quando lo fa indossa il camice grigio che porta adesso. Mi afferra i polsi e li esamina con l'ausilio della torcia medica.

«Guarda che ti sei fatta...» mi rimprovera con distacco, il tono sterile di quando recita la parte del dottore. A furia di strattonare la catena, i bracciali di ferro mi hanno provocato dei lividi violacei e doloranti.

«Se tu non mi avessi incatenata qui non ne avrei avuto motivo» ribatto, squadrando con sprezzo, a mo' di sfida, le due fessure azzurre. Poi scuoto la testa nel tentativo di liberarmi dalla cascata di riccioli biondi incollati alla fronte. Mio padre mi afferra il mento con il pollice e l'indice e stringe fino a quando non gemo di dolore. La mia provocazione ha avuto l'effetto desiderato, la maschera di indifferenza si è frantumata al suolo.

Fine dello spettacolo e dei burattini, papà.

«E io non avrei avuto motivo di incatenarti se non avessi fatto un'altra delle tue follie. Non lo so se sia la tua malattia a farti essere selvaggia come un animale, ma in ogni caso non posso accettare il tuo comportamento. Mi dispiace ma sei stata tu a portarmi a questo!» Do un altro colpo alla catena e lancio un grido di frustrazione.

Mi afferra di nuovo il viso con una mano e con l'altra mi punta la fastidiosissima piccola luce negli occhi.

Rieccoci, il dottore è tornato.

Si gratta il pizzetto biondo slavato, come se solo osservandomi potesse trovare una medicina per guarirmi. Io ne dubito, comunque, che troverà una cura. Forse lo pensa anche lui, infatti poco dopo lascia andare il mento e torna a occuparsi dei polsi. Li medica, cambia la garza alla ferita sul braccio e mi lascia di nuovo alla mia solitudine, al buio e al silenzio.

Dopo entra Labdaco e sequestra ogni cosa: i tantissimi libri che possiedo, i vestiti e i monili. Mi fa sapere che i miei temono possa usare qualcun'altro dei miei oggetti per farmi del male. O per scappare, leggo tra le righe anche se non lo dice.

La libertà me l'hanno tolta alla nascita, la dignità qualche tempo fa, quando mi hanno costretta a mangiare con le mani, ora con gli oggetti si portano via i miei ricordi e anche la mia umanità. Non sono che un essere mostruoso in catene, adesso.

La prima volta che sentii la parola "Mutazione Genetica" fu all'età di circa otto anni. Fino ad allora i miei si erano riferiti a essa con il termine generico di "malattia". Credo che cominciai a prendere coscienza di cosa significasse essere malata a sette anni. Prima immagino che confondessi i termini "malato" e "diverso". Non ero come gli altri, punto. Certo, mi accorgevo che questo fosse sbagliato, ma non comprendevo tutte le possibili implicazioni di una malattia. Perciò, iniziai a domandarmi quale malattia avessi solo all'età di sette anni. Non che ne conoscessi molte, a quei tempi. L'unica di cui ero a conoscenza, pur presumendo che ve ne fossero altre, era la Mephista. Possedevo quasi per intero la collezione di fiabe sulla Mephista. E benché i suoi sintomi non fossero elencati nel dettaglio, sono sempre stata abbastanza sicura di non esserne affetta. A farmelo pensare era soprattutto il fatto di sentirmi nel complesso sufficientemente in salute e di non avere nemmeno una minima traccia delle, spesso scritte proprio così, "atroci sofferenze" che poi portavano alla morte, nominate nelle fiabe che mi leggeva mia mamma prima di dormire. Però, nonostante si intensificasse in me il desiderio di sapere cosa avessi, man mano che crescevo si faceva sempre più difficile porre quella domanda. Qualcosa di non ben definito mi tratteneva dal farla, quasi come se mi vergognassi di voler avere notizie di una cosa tanto ignobile.

In generale il modo in cui i miei mi avevano sempre presentato la mia condizione, già dalla primissima volta davanti lo specchio della mia vecchia stanza, lasciava intendere che dovessi per qualche ragione mortificarmi. Sì, i loro atteggiamenti e le loro parole hanno sempre reso chiaro che dovessi vergognarmi di ciò che fossi. Sperimentai questa vergogna, prima ancora di saper dare un nome a tale sentimento, già nello sguardo di mia madre, la volta già citata in abbondanza in cui mi serrò le dita intorno al mento e mi costrinse a vedere la mia immagine riflessa. Ricordo ancora che spesso, quando i miei venivano a trovarmi, mi dicevo che quel giorno avrei fatto la mia domanda, punto e basta. Invece poi mi lasciavo scoraggiare dallo sguardo fiammeggiante di mio padre se per caso parlando facevo riferimento a ciò che accadeva fuori e che mi sarebbe piaciuto vedere, o dalle occhiate di mia madre velate ora di compassione ora di delusione e ora di disgusto se per caso esprimevo il mio desiderio di vivere da un'altra parte, un giorno. Bisogna specificare che a quei tempi non avevo idea che la mia reclusione sarebbe stata permanente. A ogni modo, un giorno trovai il coraggio di pronunziare quella domanda. La reazione di mia madre mi sorprese. Mi guardò come se le avessi assestato una coltellata, il viso una maschera di incredulità e amarezza, e per un secondo temetti che mi desse una sberla, invece dopo un attimo di smarrimento tornò in sé, si sistemò meglio sulla punta del letto e disse: «Hai una mutazione genetica.»

Altre informazioni mi vennero fornite solo anni dopo, e non fu mai una loro idea. Una volta dovetti fare lo sciopero del silenzio per una settimana, prima di avere la risposta a un altro quesito che era diventato per me fondamentale: «Ce ne sono altri come me?»

«C'erano e non è finita bene per loro, per questo sei qui, per proteggerti» fu la risposta.

Due anni fa dovetti rifiutarmi di mangiare fino a quando mio padre non mi intubò con la forza, nel tentativo di ricevere l'ennesima spiegazione. Questa volta la domanda era: «Cosa gli successe?»

La risposta di mia madre l'udii appena, un po' per i conati dovuti al tubo che mio padre mi spingeva in gola e un po' per il modo in cui aveva pronunciato quella parola, con un filo di voce: «Rilasciati.»

Nota dell'autrice: Ciao!  

Ti aspettavo. 

Grazie per non avermi deluso nemmeno questa volta e per essere qui a sostenermi. Spero che nemmeno questo mio capitolo ti avrà deluso. Ogni critica e ogni consiglio sono sempre ben accetti, lo sai, perciò sentiti libero di dirmi tutto ciò che ritieni opportuno. Se crescerò come autrice sarà anche per merito tuo.

Oggi come hai visto abbiamo scoperto qualcosa in più sul rapporto tra Astrea e suo padre e sull'infanzia di questa povera disgraziata. Nel dialogo finale abbiamo scoperto che un tempo esistevano altre persone affette da questa misteriosa mutazione genetica. Ma di cosa si tratterà di preciso? 

Come alcuni lettori mi hanno consigliato, ho provato a mettere in corsivo i pensieri. Sistemerò al più presto anche quelli del primo capitolo. <3

Sto provando a rendere più o meno equilibrata anche la lunghezza dei capitoli. Appena finirò questa prima stesura cercherò di fare ancora meglio.

La prossima settimana torneremo dalla nostra Danae. ^_^ 

Mi aspetto che dopo la scoperta sconvolgente di Ares succederà qualcosa di interessante, non lo pensi anche tu?

A presto, 

Giuliana.


P.S. Io voglio le magliette con questi Hashtag! 

#Astreabadass

 #BadAsstrea


Città BunkerWhere stories live. Discover now