Ares - Capitolo 22

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ATTENZIONE: Il contenuto di questo capitolo potrebbe urtare la sensibilità di qualcuno. 

Ripeto, questa non è un'esercitazione: Scene forti, linguaggio crudo e contenuto poco etico. Molto miele, molto cringe, molto lungo.

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Siamo in camera mia, attorniati dai concittadini. Danae è immobile, io sono alle sue spalle, le sorreggo la cintura con il triplice nodo. Do uno strattone alla corda e mia sorella traballa appena.

Delle donne si avvicinano al letto sul quale tra poco saremo tenuti a giacere e ne rivoltano le lenzuola bianchissime, intatte. Mi soffermo sul candore del tessuto che al più tardi tra mezz'ora sarà intaccato dal sangue di Danae, sangue che io stesso le avrò procurato. La corda ruvida mi scivola dalle mani, che adesso forse sono sudate, non lo so, e le mie dita si lanciano alla goffa ricerca di quella.

Finalmente riesco a riafferrare la cintura e a districare il primo nodo, perciò passo al secondo.

L'attenzione di tutti è rivolta su di noi, lo spettacolo più interessante di Antevorta. Mi pare di essere tornato indietro di molti anni, a quando non c'era ancora un cimitero di corpi insepolti intorno alla nostra sezione. A quei tempi, ero un bambino, prendevamo spesso parte a delle piccole recite. Negli occhi degli adulti che ci osservavano allora c'era lo stesso diletto, la stessa bramosa curiosità. L'unica differenza è che adesso stiamo interpretando le parti di noi stessi e che da questo ruolo non potremo uscire mai più.

Se io mi sono perso in lunghe elucubrazioni, mia sorella sembra invece concentratissima su una macchia invisibile sul pavimento, che fissa con la sua caratteristica ostinazione.

Strattono ancora il laccio e anche il terzo nodo si scioglie, lascio che la corda cada ai suoi piedi. Questo rito è forse ancora più importante del resto della cerimonia. Le ho sciolto il nodo che simboleggia la castità, rendendola mia moglie a tutti gli effetti.

«Ubi tu Gaia, ego Gaius» pronuncio a voce alta. Significa "dovunque sarai tu, Gaia, sarò io, Giao", è una formula che abbiamo ereditato dall'Antica Roma.

«Ubi tu Gaius, ego Gaia» risponde lei senza sollevare lo sguardo da terra, la voce che sembra provenire da lontanissimo.

Poi gli altri lasciano la stanza in silenzio, in punta di piedi, come per non profanare la sacralità del rito appena concluso.

Siamo soli da una decina di minuti, ma nessuno dei due ha avuto il coraggio di aprire bocca. Danae fissa ancora lo stesso punto e, adesso, trema. Mi schiarisco la voce, sperando di rompere la pesantezza dell'aria che ci rende tanto difficile comunicare. In questo silenzio non riconosco mia sorella come la ragazza dei giorni passati con cui ho condiviso segreti. Mi pare di essere davanti a una perfetta sconosciuta di cui non riesco a carpire i pensieri. La osservo farsi vicina, senza alzare mai gli occhi nella mia direzione, a un lato del letto.

Lascia scivolare la prima spallina azzurra, scoprendo una spalla.

Lascia scivolare la seconda spallina azzurra, scoprendo l'altra.

Io rimango immobile dove ancora mi trovo, ipnotizzato da quei nuovi quadratini di pelle nuda. Ho disegnato tanti corpi di donna, in questi anni. Ne ho potuto studiare la conformazione e accertarmi delle proporzioni, prima grazie a un libro di anatomia, poi grazie a una rivista poco edificante che fa parte del nostro repertorio di libri storici. La prese in prestito per me lo zio, un giorno.

«Dicono sia la cura per la solitudine, figliolo» disse quando me la portò, «però non mostrarla alla zia, va bene?» aggiunse. E io iniziai a disegnare prendendo ispirazione dalle donne stampate su quei fogli di carta lucida. Disegnai i fianchi ampi, più generosi di quelli delle donne della nostra comunità, riprodussi seni tondi, piccoli o grossi. Ma nessuna di quelle donne era Danae. Non volevo nemmeno averla tra i piedi, quella rivista, quando era il momento di rappresentare lei. E non la rappresentai mai senza vestiti. C'era come una sorta di sacralità, intorno alla sua figura, che me lo impediva.

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⏰ Last updated: Jan 16, 2020 ⏰

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