Ares - Capitolo 17

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La notte più lunga della mia vita fu quella in cui nacque Danae. L'epidemia di Mephista non ci aveva ancora colpiti e Antevorta era tutta intera. Il travaglio di mia madre durò moltissime ore e io passai la serata nella sala d'aspetto dell'ospedale, a fare disegni sulla parete grigia. Vagando per la stanza anonima, infatti, avevo sperimentato che, se alitavo aria calda sul metallo, veniva a crearsi una condensa sulla quale era possibile disegnare con le dita.

«Corri, papà, vieni a vedere. Dài, vieni subito» gridai pieno di orgoglio ed eccitazione. Creare immagini con le dita e il fiato mi sembrava qualcosa di straordinario ed ero convinto di essere stato il primo a fare quella strabiliante scoperta.

Quando mi stancai del gioco, l'attesa cominciò a diventare insopportabile. Non c'era proprio nulla da fare in quella stanza arredata solo da un tavolinetto basso e da una fila di sedie con mio disappunto fissate al pavimento, e non riuscivo a capire perché mia madre ci mettesse tanto.

«Vuoi andare a casa a dormire, Ares?» mi chiese a un certo punto mio padre. Ero seduto sull'ultimo sedile della fila e ingannavo il tempo scalpicciando i piedi contro il suo sostegno di metallo, le mani affondate nelle guance e l'espressione imbronciata.

«No. Sto con te.» Gli avevo promesso che gli avrei fatto compagnia e volevo mantenere la parola. E poi volevo esserci, non volevo essere escluso da quell'evento importante.

Alla fine mi distesi sulla panca, utilizzai le sue gambe come cuscino e intonai una canzoncina che allora andava di moda tra i bambini.

Viene la Mephista,

se non ti trova a letto

ti acchiappa per i piedi

ti assesta un bel morsetto.

Appena cala il buio

se non ti vuoi ammalare

fatti trovare al caldo,

non devi ritardare.

«Papà?» dissi a un certo punto, interrompendo la canzoncina che ormai da alcuni minuti non era che un motivetto appena sussurrato.

«Mh?»

«Posso essere il primo a vederla?»

«Va bene.»

Vidi mia sorella solo il mattino dopo.

Conoscevo già la sua voce, il pianto vigoroso aveva riempito i corridoi e, nella semi incoscienza del sonno, mentre lottavo per aprire gli occhi pesanti, sapevo che era nata. Non avevo mantenuto la mia promessa e non ero stato il primo a vederla. Perciò, quando al mio risveglio mi ritrovai non sulle ginocchia di mio padre ma da solo nella sala, rannicchiato sul metallo freddo della panca, mi sentii umiliato dal mio fallimento e scartato da quel trio che stava festeggiando insieme, lontano da me.

Tutta la delusione svanì quando la vidi. Mi permisero di affacciarmi da solo sulla culla e questo bastò per rammendare il mio ego ferito.

Mi riconobbe, ne fui certo e ne sono tutt'ora. Non so se distinse il mio odore come si dice che facessero un tempo gli animali o la voce che aveva sentito per mesi attraverso il pancione, però gli occhietti di un grigio indefinito mi fissarono come se sapessero esattamente chi fossi. Quello sguardo parlante era solo per me e con una punta di soddisfazione fui lieto che i miei genitori ne fossero esclusi.

Le gote rosse per le urla recenti e la testa coperta da una lanugine bianca che ricordava il cotone; mia sorella mi serbò un vagito tutto per me e prese a scalciare con i piedini minuscoli. Tipico di lei, si ribellava già. Con il suo agitare i pugni serrati diceva qualcosa, anche se ancora non potevo saperlo: non si sarebbe fatta andare bene l'esistenza cucitagli addosso dalla nostra comunità; non avrebbe permesso all'essenza di Danae di sbiadire.

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