Danae - Capitolo 19

421 39 20
                                    

Una volta qualcuno disse: «l'uomo ha smesso di essere bestia non appena si è aggregato in una comunità, coacervo di riti e di usanze condivise. Quando non ci saranno più questi, allora l'uomo sarà retrocesso a una bestia.»

Nel nostro viaggio verso la nuova terra da fondare, ci siamo persi l'autore della massima. Non sappiamo se sia stato uno dei grandi pensatori della storia o un uomo qualunque. Non sappiamo dove sia nato o quando sia vissuto, ma queste sue parole sono diventate fondamentali ad Antevorta, importanti quanto il Koru ricamato sugli abiti e inciso sulle pareti.

Di riti ne abbiamo mantenuti alcuni dell'ultimo periodo in superficie e ne abbiamo ripristinato altri molto più vecchi. Abbiamo accinto a tutta la conoscenza che possedevamo sui popoli del mondo. L'abbiamo fatto forse consapevoli che non saremmo riusciti a trascinare qui sotto la memoria di tutto, che avremmo dovuto portare solo le cose più importanti. Si è rinunciato alla religione, per esempio. Abbiamo decretato che in un bunker non c'era posto per tutta l'umanità, figuriamoci per un Dio immensamente grande e infinitamente infinito. Così lo abbiamo lasciato a osservare la terra con i suoi occhi giganti da sopra le nuvole.

Abbiamo perso oggetti, tradizioni, modi di vivere, ricordi e anche una parte di noi. I riti però non abbiamo potuto lasciarli lì fuori. Ci tengono ancorati alle radici, ci ricordano che siamo umani; per questo sono tanto importanti.

Penso "è il giorno" prima ancora di aprire gli occhi, ma mi accorgo con meraviglia di non avere né il mal di pancia né la nausea dell'incontro con Ares. Con mia sorpresa non mi viene nessuna crisi isterica e mia madre non deve scollarmi dal letto. Un tornado ha spazzato via tutte le emozioni e ha lasciato un enorme deserto. Il mio petto oggi è vuoto e desolato quanto i padiglioni della sezione B. Se solo fosse possibile direi che anche il cuore ha smesso di battere.

Mi vesto e raggiungo quella che è la sala che utilizziamo per le riunioni, oggi adibita alla funzione. Di solito cerchiamo di evitare lo sfarzo e gli sprechi inutili, ma non questa volta. Dopotutto, al momento, siamo i futuri procreatori più gettonati. Dei drappi e dei fiori di stoffa decorano le pareti e le sedie. Mio nonno, l'unico a non darmi le spalle, mi sorride e così si voltano tutti. Attraverso la stanza con lo sguardo, alla ricerca di lui. È in fondo e indossa un completo scuro elegantissimo, ha i capelli lunghi raccolti in uno chignon.

Mentre procedo lungo la navata c'è un silenzio tombale e il fatto che pensi alla morte non mi stupisce. Il sacrificio che mi viene richiesto mi è sempre pesato sulla testa come una pena capitale. Adesso è l'ora di accettarlo.

«La rassegnazione ti farà vivere più serena» mi aveva detto una volta mia madre. Non le ho mai dato retta: forse aveva ragione.

Mi fermo di fronte ad Ares e guardo la sfilza di divise marroni che stonano nel lusso della sala.

«Abbiamo passato dei tempi duri. Abbiamo perso molto dopo la reclusione da questo lato della città e abbiamo impiegato anni per abituarci a questa nuova vita. La sterilità è stata forse la piaga più difficile da mandare giù. Pochi giorni fa un lutto terribile ci ha sconquassati. Ma noi non ci arrendiamo. Noi preserveremo l'umanità. Non saremo noi qui presenti gli ultimi esemplari. Per questo, il sacrificio che mia figlia e suo marito hanno fatto deve essere visto come un atto di fede nell'uomo. Oggi siamo qui per gioire. Gioire per una nuova speranza. Due giovani sposi, vigorosi e in salute, pronti a portare a termine la più importante delle missioni. A Danae e Ares» dice mio nonno, facendo partire un applauso. Mia madre e mia zia si asciugano le lacrime. Qualche altra donna le imita. Poi ci sussurra che è ora delle promesse.

Ares mi afferra le mani. Ha le labbra piene incurvate in un sorriso e le iridi chiare mi scrutano alla ricerca di rabbia o di gioia o di paura, lo so. Fa pressione sui miei palmi, giusto un po', perché vuole incrociare il mio sguardo. So anche questo. Glielo concedo controvoglia e i miei occhi sono nei suoi per la prima volta da quando ho varcato la soglia. Io ho la morte nel cuore, questi occhi invece sono pieni di vitalità. Ares, in una città di metallo, è i colori. Per questo lo hanno segregato nella zona più isolata del bunker, per questo lo hanno mandato in esilio con i suoi fogli e le sue matite. Avevano paura che corrompesse la rigidità e l'apatia della comunità; che ne intaccasse irrimediabilmente il grigiore. Ares, ad Antevorta, è la vita.

Città BunkerHikayelerin yaşadığı yer. Şimdi keşfedin