IV

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Si svegliò.

La luce della luna illuminava la stanza a giorno.

Un armadio cadente e un tavolino in ferro battuto apparvero in color grigio perlato. La porta sul lato sinistro non chiudeva bene, ma riteneva difficile che venissero a rubare proprio a lui. Al massimo si sarebbero presi la sua vita, e sarebbe stato anche meglio.

Si sollevò a sedere e la branda sotto di lui vibrò fino all'ultima vite. Il sottile materasso di spugna, spaccato lungo un lato, scivolò via fin quasi a cadere sul pavimento.

Si massaggiò le tempie, sperando che il mal di testa potesse passargli. I capelli, una volta lucidi e chiari, si sparpagliarono a coprigli gli occhi, ora opachi e sporchi.

Non era sua abitudine piangere, da un bel pezzo ormai. Da quando viveva lì, infatti, era accaduto solo per le prime settimane, ogni notte dopo aver ricordato il motivo della fuga. E ogni volta il sogno si ripeteva in modo diverso; in alcuni casi lui veniva accusato di aver stuprato Eleonora e pubblicamente evirato. In altri sogni riusciva a scappare senza essere notato, saltando da un vicolo all'altro del centro storico fino ad arrivare a casa, dove veniva fucilato da suo padre; in altri ancora lo portavano via in manette di fronte alle urla strazianti di sua madre.

Si chiese, come sempre, come se la passassero gli altri. A quanto aveva letto dai giornali, gli assassini della bambina non erano mai stati trovati, e nessuna prova biologica nel furgone aveva portato a loro, nonostante l'autopsia avesse confermato che la bambina era morta per violenza carnale.

Nella realtà aveva corso per il viale principale, per poi tornare a casa per la circonvallazione, dove aveva incrociato almeno un centinaio di auto della polizia prima di rifugiarsi nella sua tavernetta. Dopo lo shock iniziale aveva dormito e mangiato come se nulla fosse accaduto, pur senza proferire parola. Ai suoi non era importato, perché li vedeva sempre di rado: in un paio il padre aveva notato la sua assenza, ma solo perché in officina il lavoro si era accumulato.

Poi era venuta la decisione.

Aveva bruciato i vestiti del rapimento e chiamato suo cugino all'acciaieria per chiedergli un giaciglio per qualche giorno: aveva sempre rifiutato le sue offerte di trasferirsi in città in passato, e magari di fare domanda per un posto lì. La scusa era stata sempre la stessa: si sentiva un piccolo meccanico di provincia, non un operaio di metropoli, e poi sarebbe stato l'ultimo arrivato, il pesce piccolo in un grande acquario.

Aveva preso poche cose e tutti i risparmi per poi prendere il primo bus.

Facile a dirsi, ripensò scacciando via i ricordi.

La vescica gli scoppiava, quindi andò alla porta e con un salto si ritrovò con i piedi nella campagna. All'orizzonte lo salutò l'impianto siderurgico dove lavorava ora, con i riflettori accesi a pennellare il cielo anche in piena notte. I suoi vicini non erano in giro, ma per precauzione si allontanò ugualmente fino alla latrina comune, a un centinaio di metri.

Aveva immaginato più volte di raccontare a Matteo e Ruggero com'era caduto in basso: un innocente convertito in un ratto di fogna. Più volte all'inizio aveva pensato di tornare a casa, ma aveva ancora paura che la polizia lo aspettasse sulla porta di casa, pronta a fargli pagare tutto con gli interessi. Un innocente sarebbe scappato così di fretta? gli avrebbero chiesto. Anche se non hai toccato la bambina, cosa ci faceva nel tuo catorcio?

Era rimasto sei mesi da suo cugino, cercando lavoro e un posto proprio: l'acciaieria non l'aveva voluto ma l'impianto che aveva di fronte sì; il terrore di essere rintracciato però gli aveva impedito di fermarsi in una residenza fissa. Infine, si era stabilito dove non erano richiesti documenti né registrazione.

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