VI

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Era stato per la porta-finestra.

L'aveva rotta Eleonora un paio d'anni prima del suo rapimento, per gioco naturalmente. Marta si era sempre sentita colpevole per averle lasciato lanciare il trenino grande, quello che conteneva più metallo di un sacchetto di monete. Di quel giorno ricordava solo di aver sgridato la sorellina per aver iniziato a gettare per aria i giocattoli tutt'intorno, specie con il padre che cercava di farsi passare un brutto mal di testa in soggiorno. Però la bambina l'aveva presa nel modo peggiore, ossia comportandosi peggio.

Mai però la ragazza si sarebbe aspettata di vedere un semplice giocattolo passare attraverso un vetro fatto apposta per gli ambienti domestici, e perciò pensato anche per resistere ad assalti simili. Suo padre però non prese la sorpresa allo stesso modo, afferrando la bambina per la schiena e scaraventandola sul pavimento come una bambola di pezza. Marta pensò ch'era stata già fortunata a non beccarsi una commozione cerebrale, ma cambiò idea appena vide il padre sfilarle slacciarle le bretelle e toglierle le braghe. Lo fece con naturalezza, come stesse aprendo il vano batterie del telecomando. I due secondi che ci mise Marta a reagire le furono fatali, perché con una spinta l'uomo la mandò a sbattere con l'osso sacro contro il muro; la ragazza lanciò un urlo muto e s'accasciò sul pavimento. Incapace di muoversi liberò persino la vescica.

Eleonora non reagì, istruita dalla sorella maggiore a sopportare le botte in silenzio. Sapeva che così sarebbero finite prima, ma per ovvi motivi non capì bene cosa il padre stesse cercando di farle: sulle prime aveva pensato alla classica sculacciata, almeno finchè non avvertì un tipo di male diverso, più forte e intenso di qualsiasi schiaffo avesse mai preso nella sua breve vita.

Marta la raggiunse più tardi, quando ormai aveva smesso di piangere. Il sangue scorreva a fiumi e non accennava ancora a fermarsi, quindi la ragazza corse a prendere disinfettante e garze per cercare di tamponare, sperando che non fosse troppo tardi. L'idea di chiamare un'ambulanza era a mille chilometri da lei, e per tutto il tempo pregò che l'emorragia si fermasse.

Giunta la sera Eleonora si rimise in piedi, rifiutandosi però di camminare fino al letto: se teneva le gambe chiuse le bruciava nel mezzo, come se avesse il fuoco addosso. Marta scese a cercare il padre quando non lo trovò a letto, e lo vide piangere in giardino, disteso sul terriccio. L'abito da lavoro era sporco in ogni piega, e il giorno dopo finì nella pattumiera. L'uomo passò la notte fuori, dormendo fino all'indomani mattina. Lui saltò il giorno a scuola, Eleonora mancò una settimana dall'asilo, e Marta raccontò ch'erano entrambi ammalati.

«È colpa vostra!», gemette la donna.

«Non capisco... perché non è uscito nell'autopsia?», fece Ruggero.

«Certo che è uscito, ma di certo non hanno pensato a suo padre», gli rispose l'amico. Per la prima volta Marta gli diede sul serio il disgusto; nemmeno alle superiori gli aveva mai fatto così schifo.

«Siete stati voi!», ripeté lei. «Io la stavo per medicare... sarebbe finito tutto bene!». Si piegò in due e spalancò la bocca come per vomitare, lasciando però uscire solo un sibilo. Ruggero trattenne a stento la voglia di prenderla a pugni. La bambina non meritava la fine che aveva fatto, ma quanto era vero Dio stava meglio sottoterra che in quella casa.

«Per favore», bofonchiò Marta. «Per favore, andatevene». Decise che voleva restare sola a piangere, magari rannicchiata sul pavimento; poco importava che il padre, tornando, l'ammazzasse di botte.

Ruggero guardò Matteo, come aveva sempre fatto quando aveva bisogno di un'idea geniale per cavarsi d'impiccio. Per come la vedeva lui quanto avevano sentito era sufficiente: si sentiva tolto un macigno dalla coscienza, e fu contento di aver provato a sé stesso di averne una. Quanto a Marta, stare lì per lei era peggio della galera, mentre per Eleonora non c'era più nulla che potessero fare.

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