V

93 14 33
                                    

L'aveva rivista spesso nei suoi incubi, ma di persona era anche peggio.

La villetta del preside era ridotta davvero male, tanto che quella di Simone sarebbe passata per una decente pensioncina. Sul davanti il cancelletto aveva ceduto e stava lì solo per scena; il vialetto era stato privato della ghiaia e asfaltato, e non c'era più traccia d'illuminazione o vegetazione. La porta del garage era aperta, la stanza vuota ma ben tenuta.

Anche l'ingresso sul retro era ormai libero, e da quel che poterono vedere le giostrine erano rotte e divorate dalla ruggine, mentre il prato si era inaridito come la savana. Vedendo della luce provenire dall'interno si convinsero a suonare, e solo allora notarono che il citofono era staccato.

«Ho una brutta sensazione», fece Ruggero.

«Vedi di far parlare me, stavolta».

Che parli il laureato, pensò Ruggero. Picchiò con forza sulla porta ma anche ammesso che la donna fosse stata sola in casa, cosa probabile senza l'auto al suo posto, perché diavolo avrebbe dovuto aprire a due sconosciuti? Per giunta di notte!

La soglia si spalancò quasi subito, e davanti a loro si parò una donna anziana.

Matteo fu sul punto di chiederle se conoscesse Marta, ma dai lineamenti del viso si rese conto di averla di fronte. Il tempo era stato ingiusto con lei, pensò. Il girovita snello, un tempo l'unica cosa decente della ragazza, ora era triplicato; i capelli erano una fontana d'argento, che quantomeno illuminava il volto sepolto fra le rughe, scavate come trincee.

«Si?» chiese lei, vivace come una ragazzina il sabato sera.

Entrambi rimasero scossi dalla sua reazione, e Matteo si scordò la sceneggiata a cui aveva pensato.

«Ti... ti ricordi di me?» bofonchiò.

Marta lo guardò stupita, quando chiunque altro l'avrebbe preso per pazzo.

«Matteo!» esclamò. «Sei tu!».

Si lanciò e gli cinse le braccia, stringendolo a sé. Ruggero non riuscì a evitare di sentirsi disgustato: dopo tutto quello che le avevano fatto da ragazzi... doveva essere disperata a tal punto da perdere ogni amor proprio. Ciò spiegava perché vivesse ancora con il bastardo.

Matteo ricambiò l'abbraccio, non sapendo bene come interpretarlo.

«Vi inviterei dentro, ma mio padre non vuole visite la sera, e tra poco tornerà, però possiamo sentirci qualche volta se vuoi».

«Si, ecco...». Si sforzò di trovare la combinazione di parole giusta, ma non c'era un manuale di istruzioni su come abbindolare le persone come lei. «In realtà volevamo parlarti di tua sorella».

Il sorriso le morì sul viso.

Le labbra di Marta s'incurvarono in una smorfia, e perfino la luce di prima sembrò abbandonarla. Arretrò, mettendosi sulla difensiva, e si rese subito conto dell'errore quando i due la seguirono dentro, chiudendosi la porta dietro. In meno di un minuto l'avevano intrappolata.

«Maledetti bastardi...», mugugnò.

Ruggero notò che iniziò a stringere i pugni: non li aveva ancora aggrediti solo perché si rendeva contro che in un confronto fisico avrebbe avuto la peggio. E poi c'era la paura, naturalmente. La paura di attirare l'attenzione, che avrebbe significato prenderle anche dal padre dopo.

«Dopo tutti questi anni», trovò infine la forza di dire, ma sembrò più uno squittio. «Siete tornati solo per prendermi in giro! Siete rimasti dei pezzi di merda!».

Le lacrime le avevano scavato profondi alvei lungo le rughe, però ancora prese tempo per valutare se mettersi a strillare o aspettare che se ne andassero di loro spontanea volontà una volta divertitisi, come ai vecchi tempi.

SpectrumWhere stories live. Discover now