Capitolo 9.

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Lei continuava a fissare la porta, tanto che non poteva vederla in viso.
Da una parte, voleva pensare di essersi sbagliato. Voleva pensare che si fosse ustionata con la piastra, o che il gatto l'avesse graffiata, o qualche altra sciocchezza simile. Non era poi così improbabile. Quante possibilità c'erano che quel cerotto stesse nascondendo ciò che lui pensava?
Ma, sforzandosi di rimanere lucido, si rese conto che non poteva essere nient'altro.
Un cerotto sulle vene del polso non dava adito a molte interpretazioni.
-Bianca, voltati e guardami – le ordinò, ma la sua voce non era poi così ferma, e lei rimase dov'era, rigida, con il braccio immobile nella mano di Emanuele. - Bianca – la chiamò ancora – guardami.
Stavolta doveva essere stato più convincente, perché lei si girò. Guardava in basso, con aria vagamente colpevole.
-Cos'hai fatto...? - le chiese di nuovo, anche se non era necessario.
-Credo lei sappia cos'ho fatto – sospirò lei, quasi la stesse seccando.
-Perché?
Sapeva di aver posto una domanda difficile, e non s'irritò quando ricevette una risposta poco esauriente.
-Ah, non mi ricordo. Mi sentivo triste, credo.
-Ti sentivi triste? Tutte le volte che ti senti triste, tu...
-Ma no, no – scosse la testa – mi sentivo particolarmente triste.
-Capita a tutti – Emanuele cercò di contenere il tremore delle mani e della voce – di sentirsi particolarmente tristi, almeno una volta l'anno. Ma non tentiamo tutti il suicidio.
-Ah-ha! Vorrebbe dire che le mie motivazioni erano labili? Eh? Eh?
Nel parlare gli venne sempre più vicino, spingendo la testa sulla sua spalla. Lo diceva ridendo.
-No – fece Emanuele, serio, spostandola – voglio dire che erano fin troppo profonde. La gente non arriva a questo solo perché è triste, lo fa perché èdisperata, di solito.
-Non ero disperata – precisò Bianca – ero... beh, sì, anche disperata, mi sa, sennò non l'avrei fatto. Credo di aver pensato che non ce la facevo più. Ma non era solo questo, perché capita spesso di pensare di non farcela ma nel profondo sai già che, invece, in qualche modo ce la farai, giusto?
-Beh... sì, giusto.
-Ecco. Solo che ho pensato una cosa, senta la mia teoria. Ho pensato che, anche se per quella volta mi fosse passata, era comunque inutile continuare, perché il mondo faceva schifo in ogni caso, avrebbe continuato a fare schifo anche se avessi continuato a vivere. Così pensavo. Quanto pessimismo!
-Se non ho capito male... l'hai fatto per sfiducia...?
-Bravissimo! - le si illuminarono gli occhi – Ha detto proprio la parola giusta. Sfiducia. Pensavo che anche se avessi superato quel periodo, poi comunque sarebbe successo qualcos'altro. Se non ricordo male, pensavo che le persone non mi piacessero, che nessuna fosse animata da amore e buoni sentimenti, perché in fondo siamo tutti egoisticamente e schifosamente umani. E perciò ho ragionato: chi vuole vivere in un mondo in cui non c'è niente di vero, in tutto quello che ci hanno raccontato...?
Emanuele realizzò che doveva pensarlo veramente.
In tanti sostenevano che il mondo facesse schifo e che le persone fossero cattive, ma, se il livello di disgusto e sfiducia avevano raggiunto quel livello, significava che Bianca lo sentiva davvero. Nel profondo, da dove era molto difficile risalire.
Le profondità sono luoghi attraenti, ma estremamente pericolosi.
-Insomma, ho fatto due più due – continuò Bianca – potevo anche superare quella giornata, ma sarei andata ancora incontro a un'infinità di giornate uguali a quella. Il mondo e le persone sono fatte così, lo sa anche lei. E allora ho pensato: dato che non mi piacciono, perché continuare ad affrontarle ogni giorno, se tanto so che non cambieranno mai?
-Vuoi dire che non era una crisi, ma... una scelta?
-Precisamente – confermò Bianca, sedendosi sulla scrivania e dondolando le gambe – una scelta, proprio così. Le crisi sono quelle cose che superi, e poi tutto torna più o meno a posto; tu cambi, oppure è quello che ti circonda a cambiare, ma in qualche modo recuperi l'ottimismo. Il mio era un caso diverso. Non era quella tristezza da ululati nel cuscino, capelli strappati, una corsa verso la terrazza dell'ultimo piano... è solo che ho fatto due conti e ho capito che il mondo non era il posto per me. Tutto qua.
-E tu eri ubriaca...? - fece Emanuele.
-Ubriaca? No, no, non avevo bevuto. È stato un ragionamento lucido.
-No, non intendo allora. Intendo adesso. Poco fa sostenevi di aver bevuto troppo, ma questi non sono i discorsi che fa un'ubriaca. Tu sei perfettamente sobria, altrimenti non potresti spiegare con tanta chiarezza i motivi per cui hai cercato di toglierti la vita.
-Forse sono tanto chiara proprio perché sono ubriaca. Mi sento sempre meglio, sa, quando bevo un goccetto – sorrise e gli porse la bottiglietta. Emanuele declinò scuotendo il capo.
-Intendi rifarlo? - le domandò.
-Cosa, bere vodka? Beh, non vorrei deluderla, ma ho proprio paura che...
-No, Bianca, non la vodka. Intendi provare ancora a...
Indicò il suo polso con un cenno del capo.
-Macché, prof! - ridacchiò – Mannò. Chissà cos'avevo per la testa. Poi si è sistemato tutto, si sistema sempre tutto, posso resistere. Ora mi sento molto in forma. Mi sento piena di vita, posso affrontare tutti.
-Già, parliamone– osservò Emanuele – piena di vita. Sì, decisamente direi che ne hai da vendere, di vitalità. Un po' troppa, non trovi?, per poterti definire serena.
-Come, scusi?
-La vodka, e quelle pastiglie. Non penserai che abbia creduto alla storia della pillola anticoncezionale, vero?
-E perché non dovrebbe?
-Perché, e voglio parlarti chiaro, sembri perennemente fatta di ecstasy. Voglio sottolineare che non è un'idea solo mia. La condividiamo in tanti.
-Ah, questa mania di pararsi il culo con lo scudo dell'opinione comune... non può dirmi che questa è la sua idea, punto e basta? Se lei ne è convinto mi è sufficiente come credenziale, mi creda.
Possibile che dovesse sempre farsi sconfiggere verbalmente da una sedicenne tossicodipendente?
-Che lo pensi io o che lo pensi un intero istituto, voglio comunque un chiarimento da parte tua. Dimmi la verità. Prendi ecstasy, o cocaina, o amfetamine di qualsiasi genere?
-Gliel'ho già detto molte volte, prof. No. Non sono una drogata.
-E che mi dici dell'alcool?
-Quello lo uso per darmi una calmata, non certo per agitarmi ulteriormente.
-E cos'è che ti agita, allora, se non è la vodka e neanche la droga?
-Santo Dio, LA PIANTI – gridò Bianca, e nei suoi occhi furiosi rivide un istante di qualche tempo prima; in automobile, quando lui aveva insinuato per la prima volta che lei potesse essere tossicodipendente.
-Va bene, d'accordo. Basta domande.
-BASTA CON LE DOMANDE! - strillò lei, improvvisamente fuori di sé – BASTA! Lei deve lasciarmi in pace! Ha capito? MI LASCI STARE! La mia vita non la riguarda! Si preoccupi della sua vita e di Camilla e del suo stupido cane e di qualsiasi altra cosa sia più importante di me!
-Bianca, stai calma, per favore – provò a prenderla per le spalle, ma lei si scrollò con rabbia.
-NON MI TOCCHI! - urlò, pulendosi le spalle con tanta foga che sembrava si stesse schiaffeggiando – MI LASCI STARE! SE NON GLIENE FREGA NIENTE DI ME, SE NE VADA! NON VOGLIO AVERLA ATTORNO, NON LA VOGLIO VEDERE!
-Per favore, siediti. Non urlare. Ti sento.
-NO! - urlò lei, con forza. 
Ansimò per un po', guardandolo con rabbia, poi, all'improvviso, sembrò ridestarsi. Spalancò gli occhi, abbassò la testa, si posò una mano sulla fronte e si abbandonò sulla sedia.
Emanuele la guardò, in attesa.
-Non posso andare avanti così – mormorò lei, fissando il pavimento ad occhi sbarrati. Afferrò disperatamente la bottiglietta, la stappò e, prima che Emanuele potesse fare qualsiasi cosa, diede qualche lunga sorsata. - Mi scusi. Devo andare.
-A fare cosa...?
-Devo andare. Davvero. Mi lasci andare – supplicò, stringendo la bottiglietta come se fosse un'ancora di salvezza.
-Bianca, cosa stai facendo a te stessa? - le chiese disperato, mentre si allontanava.
-Mi lasci stare – lo implorò lei, prossima alle lacrime – io stavo bene prima di parlarle. Dio – si diresse frettolosamente verso la porta; ma la voce rotta e le mani tremanti sembravano chiedere esattamente il contrario delle sue parole.
Emanuele provò a rincorrerla, ma le ginocchia per un istante gli cedettero. Si sentiva sfinito.
In fondo, nonostante fosse lei a chiedergli di lasciarla andare, in realtà era lui quello che voleva allontanarsi. Il più distante possibile, dove lei non avesse più il potere di toccargli il cuore.

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