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1981, Liceo Classico "Pietro Giannone".

Giuseppe stava seduto al suo banco in seconda fila, silenzioso e distratto quando varcò la porta della classe 3°A il professore Alessandro Mancuso, docente di storia e filosofia. Camminava con i piedi ben saldi a terra, aveva due o tre libri pesanti sotto braccio e lo sguardo disinteressato di chi crede di sapere già abbastanza.
Sedutosi alla cattedra si presentò in modo rapido e senza esitare iniziò subito la sua lezione. Parlava con una sintassi frammentaria e disconnessa, guardando spesso fuori dalla finestra, tutto ciò che diceva aveva un chiaro senso logico, ogni concetto era netto e ben delineato. Dopo appena quindici minuti la sua effettiva lezione terminò ed iniziò un monologo molto personale, quasi un'invettiva, rivolto verso tutte quelle che credeva fossero le ingiustizie ed i valori di questo malato mondo. Così si svolsero allo stesso modo le sue lezioni per tutto l'anno e per gli anni successivi, parlò di catastrofi naturali, industrie farmaceutiche e poi di morte e di comunismo e così via. Giuseppe ascoltò ogni sua lezione con grande attenzione e spirito critico, trovava nei suoi monologhi risposte a domande che cercava di ignorare ma che lo tormentavano da mesi, da anni, domande sorte da uno spirito in tormento e da una psiche fuori dal comune. La sua smania di risposte cominciò a portarsela anche fuori dalle mura scolastiche nei suoi pomeriggi in biblioteca e nelle sue visite alla chiesa di paese, questa fame di chiarezza finì per divorare tutto ciò che rendeva la sua vita semplice ed amabile: i baci della nonna, il sole primaverile, l'aria fresca all'alba... Tutto diventò vacuo e fine a sé stesso nella sua giovane mente ormai perduta alla ricerca di ciò che è giusto.

Circa all'inizio del quinto anno di studi, Mancuso, come ormai di rito nella sua lunga carriera, propose al 5°A un compito scritto, testo di venti righe che lui stesso affermò di considerare come non tanto un compito da giudicare oggettivamente, ai fini di una valutazione scolastica, bensì come un compito che avrebbe delineato in lui, in modo più chiaro, le menti di questi giovani, così da poterle giudicare secondo la sua scala di valori.
"So quanto questo sembri moralmente sbagliato" diceva "ma capire le vostre menti mi permette oggi di vedere ciò che sarà domani, quindi chiedo la più profonda onestà da parte vostra" sicuro che in ogni caso nessuno avrebbe voluto, o potuto, mentire a lui, ed alla sua autorità.
La domanda cambiava ogni anno, poneva infatti ai suoi alunni problemi di attualità chiedendo quale sarebbe potuta essere una soluzione o un'interpretazione critica del problema in questione, le risposte erano spesso disilluse, ottimiste, troppo semplici o troppo complicate, troppo subdole o troppo superficiali, erano pochi i casi di risposte concrete e quest'anno non se ne aspettava neanche una. Il problema che volle affrontare quest'anno era infatti un problema difficile da semplificare o da risolvere come un caso particolare, si interrogò sull'attentato alla sinagoga di Roma del 1982.

Distribuì il compito, lo poggiò sul banco di Giuseppe, sempre in seconda fila, sempre silenzioso.

Lui assunse uno sguardo concentrato ed iniziò a scrivere.
Su quei fogli a righe stava muovendo battaglia contro sé stesso e contro le ingiustizie di un mondo ormai senza speranza, scriveva e cancellava, si guardava intorno e guardava alle parole scritte a caso sul foglio, tutto mentre sudava nell'afa dell'aula esposta al sole, cosa che non sembrava infastidirlo troppo, ormai infatti tutto quello che succedeva fisicamente, fuori dalla sua testa, non aveva importanza, i bisbigli dei compagni, le occhiate del professore, i raggi di luce che attraversavano la stanza, tutto era superfluo, troppo lontano da lui.
Dopo due lunghe ore decise che il suo lavoro era compiuto e con un ultimo sforzo fisico lo portò al professore, se ne tornò al banco ed aspettò.

Aspettò una settimana quando il professore tornò con le correzioni. Quel giorno Mancuso iniziò così appena entrato a distribuire i compiti corretti elargendo talvolta brevi commenti e giudizi.
Chiamò: "Giuseppe Conte", il tono non era cambiato rispetto agli altri nomi che aveva chiamato sin ora, lo sguardo neanche. Senza alcuna fiducia si alzò, Giuseppe, per prendere il compito e senza neanche intercettare lo sguardo del professore se ne tornò al banco. Lo aprì ed iniziò a leggere le bevi correzioni in qua ed in là, girò poi pagina e lesse la correzione finale scritta rigorosamente con una penna rossa:

"INASPETTATO SENSO CRITICO,
OLTRE LA MEDIA,
DA PERFEZIONARE.
VOTO = 9"

Alzò lo sguardo ed incontrò quello del professore.
Un breve e severo sguardo di approvazione, uno sguardo che lo riempì per la prima volta di soddisfazione ed orgoglio, uno sguardo che ripagò non solo lo studio ma anche l'insaziabile e maniacale ricerca dei suoi ultimi anni.

Quello fu l'esatto momento in cui qualcosa iniziò a bruciare dentro di lui, qualcosa che gli diede la forza di arrampicarsi con i denti e con le unghie sino a giungere dove si trovava oggi.

LUI.Where stories live. Discover now