capitolo 3: il mostro sotto al letto non mi fa dormire

25 2 0
                                    

[ Drugs & The internet -
Lauv, nei media]

[ Drugs & The internet -Lauv, nei media]

Oops! This image does not follow our content guidelines. To continue publishing, please remove it or upload a different image.

Kim Seokjin.

Dopo ben quattordici ore di interminabili turbolenze e chiacchiere rumorose, le scarpe laccate color nero catrame avevano toccato finalmente il suolo coreano. Pantalone capri color panna, camicia di lino firmata Armani e occhiali da sole Versace, Kim Seokjin non si faceva mancare niente. Aveva soldi abbastanza da poter assecondare tutti i suoi vizi, anche quelli più superflui, se solo avesse voluto. Il trolley strisciava dietro di sé, catturando l'attenzione di tutti: l'espressione "passare inosservato" non gli si addiceva per niente, ma sarebbe stato incoerente negare che in realtà, una parte di sé, amava essere fissato dagli occhi invidiosi e pieni di rabbia di coloro che aspiravano a condurre uno stile di vita alto come il suo.
Avrei dovuto prendere un jet privato, si maledí; la prima classe ormai non faceva più per lui, troppi avari ricconi si trovavano seduti in quegli aerei.

«Salve signore, ha fatto un buon viaggio?» il cordiale uomo sulla quarantina si era inchinato dinanzi ad egli, togliendosi il cappello da chauffeur.

«Ciao Jaechan, meglio non parlarne. Mio padre ti ha chiamato?» sfilò i suoi occhiali dal naso e aspettò che il suo autista sistemasse le valige.

«Sí, mi ha informato di aver comprato un appartamento ad Hannam The Hill per lei, signore.»

«Il solito spaccone.» sussurrò, alzando gli occhi al cielo ed entrando nell'auto nera dagli interni di pelle del medesimo colore.

Quello che provava fin da bambino per suo padre era pura ripugnanza: lo trovava un uomo viscido, avido, capace di fare di tutto purché i suoi affari andassero a buon fine. A lui erano sempre e solo importati gli interessi che ruotavano attorno alla società bancaria più importante che aveva onorato, da generazioni e in generazioni, il nome della famiglia Kim. Di certo non aveva così tanto tempo e considerazione per il suo unico figlio, rimasto tristemente orfano di sua madre dalla nascita, vissuto in una delle più sontuose ville della città e cresciuto da una balia diversa ogni cinque anni. Ma per Seokjin tutte quelle ricchezze, con il tempo, stavano perdendo sempre più valore.
Avrebbe preferito crescere in un mare di amore che di Won.
Una lacuna si trovava infatti tra i due polmoni, scavata dalla perdita di sua madre e pronta per essere riempita di attenzioni e affetto da qualcuno, prima o poi. Voleva sentirsi di nuovo amato ed apprezzato Seokjin, proprio come lo facevano sentire loro.

La capitale si scagliava con violenza contro i finestrini, mentre il veicolo sfrecciava senza interruzioni verso la sua nuova dimora: era tutto così diverso dall'America e Kim si sarebbe dovuto abituare a condurre, per alcuni mesi, una nuova vita lí, dopo cinque lunghi anni di taxi gialli, gruppi accalcati di persone sotto ai semafori e capodanni festeggiati a Times Square; gli sarebbe mancata New York, insieme a quell'imponente donna color verde acqua dal braccio alzato che occupava gran parte della vista del suo ufficio.
In realtà avrebbe voluto andare ovunque al di fuori di Seoul, in cui tanti erano i ricordi ambientati in quelle strade che osservava con tristezza e rimorso. Troppi erano i sensi di colpa che si erano impadroniti dell'anima di Seokjin e che lo avevano visto fuggire al riparo nella Grande Mela, proprio quando il suo mondo di vetro si era frantumato e non vi erano più bugie grandi abbastanza e capaci di insabbiare quegli scandali e quei guai che avrebbero dato del filo da torcere alla reputazione della sua famiglia.
Era stato un vigliacco, un'uomo senza più una dignità e senza più quei valori che aveva da sempre sostenuto; non faceva altro che ripeterselo da quel funesto giorno.
Aveva cercato più volte di intrappolare il vecchio Seokjin e nasconderlo sotto il materasso in qualche modo, ma eccolo che bussava alla porta della sua coscienza ogni notte, per non dargli mai pace.
Eppure, in quel momento, il ventottenne rivedeva quel Seokjin correre sui marciapiedi del gremito quartiere, inseguito da quei sei dannati ragazzi.

«Signore, siamo arrivati.»

Kim annuí, rinvenendo in sé. L'edificio posto dinanzi ai suoi occhi avrebbe fatto sentire povero persino un milionario. Deglutí pensando a quanto suo padre avesse superato il limite: in fondo sarebbe restato in quel posto solo per pochi mesi, secondo il loro accordo, e non capiva perché tutto quello sfarzo e spreco di soldi. Sarebbe ritornato in America e su questo non c'era discussione.

Dopo essere stato accolto all'entrata da un numeroso e gentile personale, il suo cellulare squillò.
Era il grande capo.

«Non credi di aver esagerato questa volta, papà?» sospirò, appoggiando una mano al tavolo di vetro, mentre gli occhi, disorientati e curiosi, guardavano ogni particolare di quella lussuosa stanza.
Addirittura la vista sull'intera città era mozzafiato. «Se è uno dei tuoi modi per convincermi a restare qui per aiutarti, te lo puoi scordare. Sai bene qual era il nostro accordo: solo sei mesi e poi sarei ritornato a gestire la nostra sede in America. Da solo

Suo padre farfugliò qualcosa al microfono che fece già perdere la pazienza al nuovo arrivato.

«No forse non hai capito papà. Sei tu che resti qui a Seoul, perché io non voglio più vivere qui, tanto meno esserti vicino.» le unghia corte picchiettavano frenetiche sulla superficie liscia. Suo padre lo aveva incastrato in un'altro dei suoi scopi, ma Seokjin non sarebbe stato sotto ai suoi comandi facilmente.

«Non puoi proclamare quello stronzo di Yoobeom come delegato a New York al mio posto! Ti rendi conto in cosa tu ti stia ficcando papà? Sai quanto tempo ho impiegato per costruire un pezzo del nostro impero lí in America e sai in quanto poco tempo quel deficiente di Lee lo distruggerà?»

Incredibile come quelle parole piene di rabbia non smuovessero nemmeno di una virgola la decisione di suo padre: Seokjin sarebbe stato il nuovo vice presidente della loro sede principale in Corea, mentre egli sarebbe andato in giro per l'Europa a concludere degli affari ancora insospesi, per chissà quanto tempo.

«Giuro che te ne farò pentire.» sussurrò sconfitto suo figlio e riattaccò, incredulo da ciò che gli era appena stato imposto. Andava a finire sempre cosí: lui era solo la sua stupida ombra, uno dei suoi tanti burattini e mai sarebbe riuscito a farsi valere per ciò che era realmente. Ma forse Seokjin stava solo mentendo a sé stesso con la storia di essere diventato una persona migliore negli Stati Uniti, perché prima di approdare lí, sapeva di essersi trasformato proprio come il suo peggior nemico, suo padre.

[...]

Il primo mese era già trascorso e il suo nuovo incarico in azienda occupava gran parte delle sue giornate. Si era appropriato dell'ufficio libero di suo padre, per poter lavorare senza disturbi, lontano da pettegolezzi e soliti commentini da parte degli impiegati.
Qualcuno bussò alla porta di legno, probabilmente una delle assistenti di suo padre che, dopo aver ricevuto un "Avanti", entrò nella stanza.

«Mi scusi signore, queste sono le pratiche dell'ultimo mese e questo invece è il giornale che mi aveva richiesto.»

«Grazie Sunhee, appoggia tutto lí» indicò con un dito.

Quando sentí chiudere la porta, si alzò e si avvicinò a quella infinita pila di fascicoli, ma al giovane interessava solo del suo quotidiano. Dopo averlo sfilato tra i fogli, lo sfogliò, poggiandosi alla scrivania e sorseggiando il suo espresso. Tra una pagina e l'altra, un articolo rimpicciolito e posto ai margini del tabloid catturò la sua attenzione e per poco, non finí per sputarci sopra il caffè:

ANCORA SCOMPARSO IL VENTICINQUENNE DI DAEGU.

Si trattava di Taehyung.

cinéma muetWhere stories live. Discover now