24. Non avremmo dovuto

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Jungkook's pov

Erano davvero poche le cose che sin da bambino mi spaventavano, così poche da conoscerle solamente io, decidendo così autonomamente di non parlarne con nessuno, perché non ne avevo di certo bisogno.

Tra quelle cose, c'era l'ansia di non essere abbastanza agli occhi delle persone che avrei desiderato avessero stima di me, l'idea di non poter essere in grado di proteggere le poche persone che amavo, e l'ultima, erano gli ospedali.

Non riuscivo a capirne il motivo ed ogni volta tentavo di affrontare questa mia ultima paura in modo da autoconvincere me stesso che non avessero nulla di strano, che fossero delle semplici strutture per ospitare le persone malate che nella migliore delle ipotesi ne sarebbero uscite sane, e nella peggiore sarebbero semplicemente morte, ma questo non mi aiutò mai: quei corridoi larghi, lunghi ed angusti, quei piccoli lettini dalle lenzuola bianche schierati uno di fianco all'altro, come per ricordarci che in quel momento fossimo tutti uguali, che lì dentro avessimo tutti la stessa importanza, lo stesso scopo, la stessa paura.

In quel momento, mentre aspettavo in uno di quei terribili corridoi l'esito dei dottori che visitarono Raekyung dopo essere stato portato lì d'urgenza, con la mano stretta maniacalmente in quella fredda di Ririn, mi resi conto di essere nel bel mezzo di tutte le mie paure, e questo non mi aiutò di certo a calmarmi, nonostante mi fossi imposto di essere forte e freddo, in modo da dare parte del mio coraggio anche a mia moglie.

Le mani tremavano ad entrambi, e forse era proprio per questo motivo che ci stringevamo con così tanta forza da farci male.

Voltai il viso verso di lei, studiandone il profilo stravolto, di un bianco innaturale, con lo sguardo perso di fronte a lei ed una patina lucida davanti agli occhi.
Stava battendo i denti, non capii se per l'ansia o per il freddo che soffiava in maniera quasi innaturale in quell'arieggiato corridoio buio e deserto.

Mi tolsi la giacca dalle spalle e la poggiai sulle sue, che sussultò prima nel sentire svanire il contatto tra le nostre mani, e poi nel sentire quel caldo indumento sulle spalle scoperte.

“Non c'era bisogno” sussurrò, risultando tanto piccola ed indifesa da farmi venire voglia di stringerla a me per sempre, di donarle tutta la pace di cui aveva bisogno e che meritava, perché ne stava vivendo davvero troppe, e io avevo sempre più paura di giungere ad un punto di non ritorno, che fortunatamente ancora veniva solamente sfiorato ma non oltrepassato, ma non sapevo quanto sarebbe durato tutto ciò.

Avvolsi le sue spalle con un braccio e la strinsi a me, lasciando che poggiasse il viso nell'incavo del mio collo, e fu istintivo per lei avvolgere il mio busto con un braccio, permettendomi di prendermi cura di lei, nonostante avessi fallito nel mio tentare di infonderle forza, perché l'idea di mio figlio in pericolo nella stanza davanti a noi mi metteva la pelle d'oca, oltre che una terribile sensazione di impotenza ed inerzia, perché non potevo fare nient'altro se non sperare con ogni mia energia che fosse forte e si riprendesse al più presto possibile.

“Jungkook” la foce di Ririn mi fece ritornare alla realtà, mentre accarezzavo distrattamente il suo braccio “Ho paura”

Non capii perché, ma sentirglielo dire a voce mi fece – paradossalmente – ancora più male, perché per ammetterlo significava che fosse davvero così, e che avesse davvero tanta paura.

“Anche io...” decisi di non fingermi qualcun altro, di non lottare per dimostrarle qualcosa che non ero, perché sapevo che ostentare forza non fosse altro che un sintomo di debolezza, e di essere così tanto deboli, in quel momento, non potevamo permettercelo.

Le baciai la testa senza aspettare una sua risposta, in attesa del responso del dottore, che nel profondo del mio cuore, speravo che arrivasse il più tardi possibile.

 𝘏𝘖𝘛𝘌𝘓 𝘉𝘓𝘈𝘊𝘒 𝘔𝘖𝘛𝘏 // 𝔧𝔢𝔬𝔫 𝔧𝔲𝔫𝔤𝔨𝔬𝔬𝔨 ✔️Where stories live. Discover now